La morte di Ouedraogo ci rattrista perché conoscevamo e amavamo il suo cinema, libero, originale e… africano. Un cinema capace di narrare e rappresentare la realtà africana tra mito e società in movimento.
E’ stato un maestro di cinema, capace di una comunicazione immediata anche con noi “europei”, ai quali quel cinema poteva sembrare insolito e “difficile”…
Lo ricordiamo con un articolo di Silvana Silvestri apparso su il manifesto.
Poesia e mito, addio a Idrissa Ouedraogo
Silvana Silvestri
Il regista burkinabé, uno dei maggiori cineasti africani, è morto domenica a 64 anni. Celebre per il suo impegno e per film come «Yaaba», «Tilai», «Samba Traoré», «La colère des dieux»
Riposa adesso anche Idrissa Ouedraogo sotto l’ombra del baobab, il luogo emblematico che raccoglie i padri fondatori del cinema africano: è scomparso domenica il grande regista nato nel Burkina Faso nel 1954. Se il vasto pubblico è entrato per la prima volta in contatto con una cinematografia mai apparsa prima sui nostri schermi è per merito di film come Yaaba (La nonna, 1989), Tilai (1992), Samba Traoré (1992). Ha così potuto scoprire un ritmo inconsueto che si spostava dal dramma alla commedia, i conflitti città campagna, le tradizioni orali, la messa in scena di personaggi dalle radici antiche e storie simili a drammi shakespeariani e alla tragedia greca. Si scopriva così un territorio con le sue tradizioni e si partecipava a sentimenti di carattere universale. Probabilmente è stato questo il segreto del suo successo, un linguaggio che poteva parlare a tutti pescando nel profondo delle pulsioni umane.
Dopo studi effettuati a Kiev e all’Idhec e alla Sorbona di Parigi («sentivo un certo disprezzo, o meglio un disprezzo inconscio per l’Africa») nei suoi primi cortometraggi si dedica a problematiche del suo paese, come la carenza sanitaria, o gli usi e costumi, i funerali, l’artigianato, l’esodo rurale temi poi sviluppati in seguito nel lungometraggio Yam daabo (1986, La scelta), dove una famiglia si allontana dal villaggio a causa della siccità. Una linea guida che lui diceva essere nata da una frase di Sembène Ousmane quando ebbe il gran premio al Fespaco per il suo corto Poko (1981): «ricorda per chi fai film e per cosa li fai», un’indicazione che legava il cinema allo sviluppo socio economico del paese. Ma è con Yaaba (la nonna) che raggiunge il successo internazionale, selezionato agli Oscar come film di lingua straniera, semplice intreccio che vede due bambini fare amicizia con una vecchia del villaggio considerata da tutti una strega, accusata di aver fatto ammalare la bambina, ma l’unica che potrà guarirla. Film di ampia coproduzione che ebbe il supporto di maestranze europee (il montaggio era di Loredana Cristelli), di immediato impatto per la semplicità e allo stesso tempo lo sguardo diverso. Sul set di Yaaba il regista senegalese Djibril Diop Mambéty girò il documentario Parlons Grand-Mère.
È da un confronto tra i due maestri del cinema dove si può cogliere la differenza di stile tra l’andamento più classico di Ouedraogo così apprezzato dal pubblico occidentale e il ritmo frenetico dai collegamenti impensabili del poeta-musicista, un’altra delle grandi voci del cinema africano.
Stesso successo accompagnò Tilai (1990, La legge) di coproduzione anche italiana che con il suo solito rigore affronta tematiche tribali e l’ineluttabilità delle scelte personali: Saga torna al villaggio dopo una lunga assenza e trova la sua fidanzata andata sposa al padre. La relazione che si riaccende tra i due lo condanna a morte, ma il fratello riesce a farlo fuggire e il suo nuovo ritorno per assistere la madre moribonda porterà alla tragedia finale, al fratricidio dettato dal disonore. Il film ricevette il gran premio della giuria a Cannes e il premio Fipresci.
Vinse l’Orso d’argento a Berlino Samba Traoré (1993) quasi un classico noir, dove il protagonista dopo una rapina a un distributore di benzina sposa la bella divorziata, apre un bar e si dà alla bella vita. Ma il passato ritorna con violenza. Qui il conflitto tra città e campagna è evidente, un tema che era già stato anticipato dal suo Karim na Sala (1991), storia di due adolescenti. Interessante la serie di documentari e mediometraggi che si alternano ai lungometraggi come quelli sul lavoro delle donne in miniera, sull’Aids, sulla pratica dell’escissione. Riprende anche se stesso per raccontare la sua personale vicenda cinematografica (Les parias du cinéma).
Dopo aver realizzato il corto per il film collettivo internazionale dedicato all’11 settembre torna con l’atteso La colère des dieux (2003) sempre di coproduzione francese, una leggenda ambientata nel regno dei Mossi (diventato indipendente dalla Francia con il nome di Alto Volta, dal ’60 Burkina Faso dopo la rivoluzione di Sankara). Un film che sembra indicare con la semplicità di una rappresentazione popolare sia al pubblico che ai cineasti africani di guardare bene verso la terra degli antenati ed ascoltare la loro voce. Si entra nella mitologia con tempi scanditi e personaggi storici da ascoltare con attenzione. Un film dalla forma western con allusioni a Sergio Leone, la lotta per il potere nella società maschile, le cavalcate nella prateria e il passaggio verso tempi più antichi tra riti di iniziazione e la presenza solenne dei totem.
Il re è morto e la successione non avverrà secondo la tradizione ma con la presa del potere di suo figlio Tanga (interpretato da Oumalou Barou Ouedraogo attore di teatro con una scuola dove si insegna a recitare in lingua nazionale) sanguinario e testardo, e che diventerà padre di un figlio non suo che lo stregone addita come portatore di sventura. Un magnifico racconto che allude anche alla leggenda fondante del Burkina Faso, allusione ai legami indissolubili tra le diverse genti così in contrasto con gli eccidi tra popoli africani.
il manifesto, 20/2/2018