Gli atti di violenza degli uomini sulle donne, accompagnati dalle chiacchiere giornalistiche e dalla loro spettacolarizzazione assumono significati importanti per un analisi della società contemporanea. Qui di seguito una riflessione di Stefano Ciccone apparsa su il manifesto.
Dietro quei dati sugli stupri
….di Stefano Ciccone
Violenza maschile contro le donne. Le statistiche e le rappresentazioni. Un’emergenza agitata per alimentare l’odio e nascondere il vero problema
La violenza maschile contro le donne è al centro dell’attenzione: spettacolarizzata, offerta allo sguardo voyeuristico sulla sofferenza delle vittime o delle famiglie. Una rincorsa pornografica in cerca del frammento di orrore o dell’effetto commozione.
L’emergenza violenza è agitata per alimentare l’odio e l’intolleranza che crescono nel paese e che il governo insegue e riproduce. Lo stupro di Rimini è stata l’occasione per questa campagna inciampata poi sulla violenza da parte dei due carabinieri, fino alla ragazzina cinese aggredita da un italiano a Milano.
In questo contesto i dati del Viminale sulle denunce per violenza sessuale, per cui il 60% delle violenze denunciate sarebbe ad opera di italiani e il 40% ad opera di «stranieri» pur essendo questi minoranza, sono stati impugnati, purtroppo, non solo dalla destra.
Il femminismo e la sinistra sono stati accusati di essere troppo titubanti nel condannare la violenza degli stranieri per un «politicamente corretto» ipocrita. L’alternativa sarebbe un’intransigenza che sulla violenza sulle donne «non guarda in faccia nessuno»? In realtà è perfettamente l’opposto: l’allarme sociale sulla violenza, ridotto a emergenza di ordine pubblico, a frutto di un’invasione di altre culture, non solo alimenta la xenofobia, ma ha il risultato di marginalizzare e rimuovere il fenomeno. Più si rappresenta la violenza come emergenza più la si può considerare estranea alla nostra «normalità», come un’alluvione: il segno di una pazzia, di una barbarie da allontanare e non un problema che riguarda la nostra società, la nostra cultura. E così, dopo la nostra dose di orrore, commozione o indignazione, possiamo passare ad altro tranquillizzati. Noi uomini italiani possiamo metterci l’animo in pace: non c’è bisogno di metterci in discussione, non c’è nulla da cambiare nelle relazioni tra i sessi, nel nostro immaginario, nella nostra sessualità: basta delegare alle forze dell’ordine.
Che significatività statistica hanno i dati forniti? Lo stesso Viminale afferma che si tratta solo del 7% delle violenze avvenute: il 93% non viene denunciato. La parte conosciuta e quella sommersa sono omogenee ed equivalenti per cui la prima è rappresentativa della seconda? È evidentemente più facile denunciare la violenza di un aggressore sconosciuto che non quella di un datore di lavoro, un parente o un’autorità religiosa. Gli stessi dati del Viminale mostrano che il numero di stranieri nel nostro paese è aumentato ma la percentuale di stupri operati da questi è diminuito. Che significato avrebbe questo dato? Che aumentando il numero degli stranieri diminuisce la loro propensione alla violenza? In realtà si tratta di numeri così parziali da avere una scarsa attendibilità e un’oscillazione casuale non significativa.
La categoria «stranieri», poi, è stata da tutti letta come «immigrati provenienti dall’Africa, dal sud, neri, arabi». In realtà gli stessi dati ci dicono il contrario: la categoria comprende, come è ovvio, belgi, statunitensi, cinesi, australiani, libici, siriani, norvegesi… e la frequenza delle violenze è proporzionale alla numerosità delle comunità presenti. Anzi: anche se l’emigrazione dalla Germania o dalla Siria verso l’Italia non hanno le stesse dimensioni le violenze ad opera di tedeschi sono il doppio di quelle commesse da siriani.
Già Saporiti, sul Sole24ore del 17 settembre, mostra, confrontando la numerosità dei residenti italiani e dei residenti stranieri con la numerosità dei detenuti per reati sessuali, come i dati siano travisati. Studi come quelli di Elisa Giomi dell’Università di Roma 3, mostrano che la realtà è esattamente l’opposto: i casi di violenza ad opera di stranieri vengono riportati dai media 7 volte di più di quelli ad opera di italiani.
Tornando al Viminale, e dunque non ai detenuti ma alle denunce, il risultato non cambia. 25 sono gli autori di stupro dell’Europa dell’ovest, 5 del nord America, 110 del sud e centro America, 173 dall’Asia. La nazionalità cinese, in genere in ombra, mostra 17 autori, il doppio della repubblica serba e più di cinque volte dei libici. Gli autori di stupro provenienti dai circa 50 stati dell’Africa sub sahariana sono 203, il 12,7 %, quelli provenienti dal Maghreb 330, poco meno del 21%.
Ma, soprattutto, le vittime, che nella percezione della notizia sarebbero tutte italiane, corrispondono di nuovo a tutte le comunità. L’immagine di immigrati sbarcati sulle nostre coste che violentano le donne italiane non ha dunque corrispondenza statistica. Come diciamo da venti anni la violenza non può essere attribuita a una nazionalità, a una cultura o a un livello sociale: è opera di parenti, amici e colleghi.
Le 1.539 denunce per stupro sono, inoltre, solo una piccola parte dei reati che riguardano la violenza maschile (lo stalking, le percosse, le uccisioni…). Sulle uccisioni i dati ci dicono che gli italiani sono la stragrande maggioranza.
I numeri, dunque non giustificano la strumentalizzazione xenofoba della violenza. Ma la cultura securitaria e razzista che militarizza le nostre città non è solo contro gli immigrati, è contro le donne. La riproposizione di una società chiusa, anche se usa il rispetto delle donne come valore contro altre culture è nemica della libertà femminile. Lo stesso vale per la lettura dei diritti delle persone omosessuali in funzione islamofoba. La rappresentazione di una contesa tra uomini con le donne poste sotto tutela e protezione maschile è linearmente connessa con un ruolo di potere. Le donne e i minori posti sotto quella l’autorità paterna che, fino al 1975, esercitava l’uso dei mezzi di correzione anche sulla moglie.
Ma possiamo negare le differenze tra culture? Certamente no. Eppure i media, come abbiamo visto, mescolano paesi africani islamici, cristiani e animisti.
Se la violenza è trasversale, la condizione di segregazione coatta, di isolamento ed esclusione contribuisce a produrre comportamenti violenti. Le politiche di inclusione, di ricongiungimento familiare, di recupero di condizioni di vita e relazionali umane contrastano la violenza più di politiche che accrescono la marginalità.
Sarebbe poi opportuno cogliere, con le differenze esistenti, gli elementi che attraversano culture rappresentate come incompatibili: la rimozione sociale del desiderio femminile, la tendenza a normare i corpi femminili, la rappresentazione di uno sguardo e un desiderio maschili che «consumano», violano e degradano e che porta o a coprire i corpi femminili o a esporli come merce.
E sarebbe opportuno riconoscere le differenti «culture» non come entità omogene e costanti nel tempo: l’irrigidimento integralista nelle diverse comunità islamiche non come residuo del passato ma moderna risposta politico identitaria, i conflitti agiti dalle donne nelle società non occidentali, la distinzione tra tradizioni culturali e dettami religiosi.
Ma l’obiezione ricorrente è: «va bene ci sarà anche la violenza degli italiani, ma intanto cominciamo col non far entrare altri stupratori…». In questo avverbio: «intanto», si nasconde l’ipocrisia della retorica xenofoba: rimandiamo la violenza contro le donne al momento remoto in cui avremo chiuso le frontiere e espulso l’ultimo «straniero», nel frattempo parliamo d’altro.
il manifesto, 18/10/2017