Proseguiamo il dibattito sul lavoro che cambia o non c’è, e le proposte per redistribuirlo. Qui un articolo di Mario Sai, apparso su il manifesto, che ripropone l’ipotesi mai tramontata “lavorare meno, lavorare tutti” come risposta responsabile e fattibile per affrontare il problema del lavoro.
La catastrofe del lavoro non è colpa dei robot ma della flex-insecurity
L’abolizione dei voucher è una buona notizia per i due milioni di uomini e donne che in questi anni sono stati obbligati a lavorare subendo la totale discrezionalità dei datori di lavoro, dovendo dare in cambio una totale disponibilità di tempo.
E’ una vittoria della Cgil, ma non è che l’inizio.
Non si tratta di regolare meglio il mercato del lavoro, ma di indicare una alternativa ad una potente onda ideologica che da quarant’anni, mettendo insieme il «fare più con meno» (meno magazzino, meno tempo, soprattutto meno occupati stabili) del toyotismo e il «farsi imprenditori di se stessi» dei nuovi lavoratori interconnessi nella Rete, ha teso a destrutturare le regole e i diritti conquistati con un lungo ciclo di lotte nei sessant’anni del fordismo e che avevano nel contratto la loro garanzia.
La catastrofe del lavoro non ci precipiterà addosso per colpa dei robot. Sta già avvenendo e deriva da un sistema di produzione che ha come regola aurea il just in time, anche per i lavoratori.
Chi è stabile deve essere pronto a fronteggiare ogni varianza nella produzione, pronto allo straordinario fino a morirne (in Giappone lo chiamano karoshi).
Per i precari, che devono stare sempre a disposizione, deve valere come filosofia consolatoria l’idea di essere liberi dai vincoli della subordinazione ed accettare, perciò, di lavorare anche senza contratto.
E’ il caso della gig economy, dove i lavoretti sono la conseguenza dell’ impoverimento dei salari e della caduta dei redditi di ampi settori di ceto medio per cui è necessario mettere in valore tutte le proprietà che possono produrre reddito a cominciare dalle case e dalle auto che rimangono per lungo tempo inutilizzate.
Nascono così, come dice il Ceo di Uber, nuove forme di lavoro, dove la gente è «libera» di cominciare e smettere quando vuole.
E’ l’ideologia di un post-capitalismo , in cui sono esaltati gli aspetti di autonomia e libertà, che occultano l’esasperazione della subordinazione sostanziale e del ricatto, che valgono per i lavori e le produzione povere, quelle che andrebbero fuori mercato senza la negazione di diritti e la feroce compressione del costo del lavoro, ma anche per le imprese innovative.
La nuova sede di Facebook a Milano è organizzata con luoghi di conversazione e angoli gioco. Chi ci lavora lo fa per progetti, non ha un orario e nemmeno una postazione fissa. Dietro questa liberazione da ogni vincolo formale opera una dura competizione tra individui e gruppi, perché chi non ce la fa è fuori. Tempo di vita e tempo di lavoro si sovrappongono, come nello smart working, che lega le alte professionalità, e non solo, alla interconnessione senza limiti .
Sono sempre più una minoranza i lavoratori che mantengono garanzie occupazionali, buoni salari, welfare e anche, ma non sempre, potere contrattuale e libertà sindacali. Sono gli operai «combattenti» di Marchionne; i lavoratori «aumentati» che operano nella virtual room della Alstom; i collaboratori «partecipativi, competenti, versatili» di cui hanno bisogno le imprese innovative per il salto verso Industria 4.0.
Se si guarda ai trend di lungo periodo, a cominciare dal Giappone, saranno non più di un terzo degli occupati. Lo conferma anche l’andamento delle assunzioni in Italia.
E’ dal 1997, con la legge Treu, passando per la legge Biagi e la riforma Fornero, che si è introdotto un numero crescente di forme atipiche di contratti di lavoro.
Nel 2015 il Jobs act garantiva che incentivi e minori protezioni nei licenziamenti avrebbero ridotto il grande mare della precarietà. Invece i contratti a termine sono aumentati dal 62% del 2014 al 65% del 2016. Si sono buttati al vento due miliardi e mezzo per toccare con mano che c’è un’area di lavoro stabile di cui le imprese non possono fare a meno, come non possono fare a meno di una massa crescente di lavoro non tutelato.
Nel 2016 i contratti a tutele crescenti sono stati il 22% del totale. I contratti a tempo indeterminato erano il 24% nel 2014.
Al potente imperativo del «fare di più con meno», che ha portato gli Usa nel 2014 al secondo posto per produttività dietro la Cina con, però, due terzi degli occupati pre-crisi, si tratta di opporre un rinnovato «lavorare meno, lavorare tutti».
Per funzionare ha bisogno non solo di una forte capacità contrattuale, ma di una idea di società, che smascheri l’ideologia del reddito senza lavoro; della autonomia formale nella subordinazione sostanziale; della flex-insecurity fondata su libertà di licenziare con indennizzi modestamente crescenti.
Tutto questo non si può fare senza una profonda riforma della sinistra, che torni a fondarsi sulle vite e le speranze delle donne e degli uomini che in questi anni, nelle lotte per dare un senso al loro lavoro, hanno, però, incontrato nei loro percorsi politici ed elettorali altri interlocutori.
il manifesto, 25/3/2017