I conflitti di oggi, i lasciti di ieri. L’Isis adesso si può battere. Ma il «nuovo ordine mondiale» e le gerarchie politiche fissate dopo l’89 vacillano. Conflitti vecchi e nuovi consegnano un’instabilità che non passa
Il Califfato potrebbe rivelarsi un episodio transeunte. Più arduo è stabilire se con la sua eventuale sconfitta sul campo verranno meno le cause profonde che l’hanno prodotto.
Poiché l’analisi corrente nella politica e nella comunicazione occidentale è viziata da una dicotomia fra Bene e Male, a cominciare dalla definizione riduttiva del Nemico come Terrorismo, gli esiti di questa vicenda così dolorosa per tutti potrebbero non essere veramente risolutivi nel senso della coesistenza se non della pace.
L’obiettivo della guerra intentata dalla coalizione fin troppo estesa e variegata che fa capo agli Stati Uniti contro l’auto-proclamato Califfato nel 2014 e rilanciata con più accanimento nel 2015, anche con l’ingresso nella tenzone della Russia, è la cancellazione dalla carta geopolitica del quasi-stato che controlla ampi spazi di Iraq e Siria e la rimozione degli avamposti costituiti in suo nome in Libia (per tacere dello Yemen o del più lontano Afghanistan).
In Iraq e Siria l’Isis svolge funzioni di governo, amministra un territorio con un popolo valutato in 5 milioni di persone, gestisce un’economia con la rendita garantita da petrolio, imposte e introiti di reperti archeologici e sequestri.
Ci sono i sintomi concreti, sul terreno, di una perdita progressiva di posizioni. Lo sbarco a Sirte potrebbe essere un ripiegamento da quello che è stato e rimane l’epicentro del potere di Daesh e non un ampliamento della sua sfera di «sovranità». Gli attentati in Europa potrebbero essere a loro volta una dimostrazione di debolezza (a Mosul e Raqqa) più che di forza. Non è nemmeno sicuro che le cellule che agiscono qua e là nel mondo organizzando attentati (questi sì a tutti gli effetti configurabili come terrorismo, rispetto alla guerra asimmetrica che si combatte in Medio Oriente e Nord Africa), con richiami più o meno certificabili alla centrale (in questo Isis svolgerebbe una funzione paragonabile a quella di al-Qaida, che non si è mai curata di creare uno stato ma al più di disporre di una base), siano realmente una propaggine del Califfato, rispettino i suoi ordini e giovino alla sua causa.
C’è da considerare, infine, le opinioni pubbliche dei paesi arabi e le minoranze arabe trapiantate in Europa, soprattutto quelle che provano più disagio in termini di economia e psicologia individuale o di gruppo. Alcuni analisti le considerano il «terzo cerchio» della strategia e dell’essenza stessa di Isis per il reclutamento di combattenti e ancora di più per la nube di consenso che si leva da loro incidendo sulla politica, e non solo sulla guerra, a livello mondiale.
Gli avvenimenti che ruotano attorno al Califfato non sono propriamente una novità imprevista. È dalla fine della guerra fredda che gli Stati Uniti, sconfitto e ridimensionato il rivale storico, hanno dislocato da Est a Sud il loro apparato di sicurezza.
Il primo episodio del dopo-bipolarismo fu la guerra contro l’Iraq per «liberare» il Kuwait. L’origine immediata della guerra fu una grossolana violazione delle regole internazionali da parte di Saddam ma la guerra fu sfruttata per fini che oltrepassarono ampiamente il caso specifico. Fra l’altro, fu verificata dal vivo la possibilità per gli Stati Uniti di mantenere l’egemonia anche in quello che George Bush senior definì subito «nuovo ordine mondiale».
Doveva essere chiaro a tutti che – clash of civilizations o «fine della storia» – il responso della competizione Est-Ovest aveva fissato le gerarchie.
L’Occidente avrebbe avuto la prima e ultima parola nel governo del mondo secondo il sistema che la scienza politica definisce «unipolarismo imperfetto»: ne dovevano prendere atto la Russia e la stessa Europa, alleato obbligato di Washington, che sarebbe stata infatti chiamata ripetutamente a condividere gli atti di imperio di Clinton, Bush junior e Obama.
La guerra fredda terminò senza che si fosse verificato un evento militare di grosse proporzioni in Europa, la terra in cui i due blocchi confinavano e si confrontavano. Le crisi e i conflitti avevano avuto tutti luogo fuori dell’Europa, in Asia e in Africa, in quel mondo in via di sviluppo che usciva dal colonialismo e quindi dall’orbita dell’Occidente e del capitalismo e che era in cerca di un modello di stato, sviluppo e alleati. Sempre nel discorso in cui enunciò la nascita del «Nuovo ordine mondiale», Bush non aveva nascosto che l’area strategica sarebbe stata ormai un Sud per proprio conto in piena transizione e verosimilmente instabile.
La Corea, il Vietnam, l’Algeria, il Congo, l’Angola, la Palestina e per concludere, a parti rovesciate per quanto riguarda la potenza interventista, l’Afghanistan sono venuti prima dell’islamismo radicale.
Un filo di cui ignoriamo il colore unisce le guerre in Periferia di prima e dopo lo spartiacque del 1989. Proprio l’Afghanistan chiuse la trama della guerra fredda (allora si parlava di ideologie) e aprì quella della sfida jihadista (adesso si parla di identità e di religione, comparse già con la rivoluzione in Iran).
Il conflitto che stiamo vivendo non è cominciato nel 2011. Le Primavere arabe potrebbero essere state l’ultimo fallimento del tentativo dei paesi arabi di uscire dall’autoritarismo per vie democratiche. Alla ribalta urgono più che mai i problemi lasciati irrisolti dai passaggi storici del «secolo breve»: la decolonizzazione e la scomparsa dell’Urss nella realtà europea e della «rivoluzione» variamente ispirata all’Ottobre come strumento di liberazione di popoli e classi.
L’integrazione del Sud, entrato nel mercato e acculturato sommariamente per effetto del colonialismo, è ancora un’incompiuta. Le élites e le masse, in modo diverso e fra molte difficoltà (la prova più recente è l’Egitto di Morsi e al-Sisi), lottano, spesso in modo improprio, per emergere, soddisfare le esigenze primarie, conquistare il potere e – alla svolta del Millennio – affermare confusamente una continuità con un passato anch’esso mal definito.
La contestazione nel mondo ha cambiato segno: non giova a nessuno sottovalutare un fenomeno che va molto oltre il fondamentalismo e il terrorismo islamico. Giudicata nella lunga durata, l’intenzione affermata e riaffermata dal governo italiano di «ritornare» in Libia potrebbe essere un passo falso di grosse proporzioni, quale che sia il primo impatto con dirigenti di cui non si conoscono bene le ascendenze e i programmi.
L’argomento ricorrente è che l’Italia ha una grande esperienza di Libia. Si dimentica che il nostro curriculum contempla personaggi del calibro di Badoglio e Graziani? Anche prescindendo dall’horror, si gira intorno a un privilegio che sembrava superato. Se invece la primogenitura dell’Italia si spiega con l’attività dell’Eni, per i cui interessi Renzi ha mostrato una particolare attenzione nei viaggi in Africa, si cade nei soliti cascami petroliferi che, da Mossadeq in poi, hanno fatto la storia delle interferenze occidentali nel Medio Oriente.
Il capo del governo designato in base all’accordo di concordia nazionale fra Tobruk e Tripoli è stato ricevuto a Roma e ha sollecitato il nostro governo a rimettere in moto il trattato che sistemò il contenzioso fra Libia e Italia. L’accordo del 2008 fu l’ultimo atto di grande politica compiuto da Muammar Gheddafi: è come se l’impegno persino ossessivo a riscattare la Libia da una conquista e occupazione sofferte come una menomazione insopportabile abbia segnato, prima ancora dello scoppio della guerra civile, la fine del «tempo» di Gheddafi. Quella richiesta, venuta da chi dovrebbe rappresentare una classe dirigente dichiaratamente post-coloniale, è a suo modo una prova che il colonialismo conserva una sua rilevanza.
Su grande scala, scontando le differenze che caratterizzano un’area vasta e composita come il mondo arabo-islamico, il nodo principale è l’insieme di prevaricazioni e frustrazioni del rapporto Nord-Sud. Fra i protagonisti della guerra per distruggere il Califfato ci sono stati arabi e islamici, sunniti o sciiti, con istituzioni e governi di dubbia legittimità e di incerta durata.
Il futuro di Iraq e Siria non è messo in discussione solo dall’Isis. I membri della coalizione anti Daesh hanno obiettivi propri, incompatibili fra loro. Il pericolo è che nelle capitali che contano ci si prepari a procedere alla ricomposizione degli stati e delle comunità senza stato seguendo le logiche con cui le potenze esterne, dall’alto, decisero giusto un secolo fa la sorte delle terre arabe appartenute all’Impero Ottomano.
Gian Paolo Calchi Novati
il manifesto, 2/1/2016