Per salutare l’anno nuovo riportiamo un intervento di Scipione Semeraro apparso sul n.37 di Alternative per il Socialismo. Ci sembra una riflessione, di parte, importante che condividiamo e vorremmo condividere con tutte e tutti coloro che hanno a cuore la scuola come luogo di formazione di una cultura critica.
Auguri a tutte e tutti!
marco sansoè, info@lacittadisotto.org
Un’idea a sinistra per la scuola, di Scipione Semeraro
Da tempo il linguaggio politico ricorre ad un astuta inversione di senso delle parole. Si pensi al termine riforma: tradizionalmente indicava un evento di miglioramento della realtà, poi si è sempre più legato al suo opposto. Basti dire della “riforma” delle pensioni, le norme del lavoro e via dicendo. Anche la “buona” scuola segue questo destino. La riforma della scuola non ha nulla di i buono. Un pasticcio di idee aziendalistiche e di empirismo culturale. Si compie un lungo viaggio di impoverimento e depotenziamento della scuola pubblica, iniziato da Luigi Berlinguer, poi con la Moratti e la Gelmini. In passato le riforme erano ispirate da grandi protagonisti della ricerca pedagogica, Visalberghi, Agazzi, Maria Corda Costa, De Bartolomeis, Manacorda, la buona scuola ha il suo mentore in un tale Faraone. Un segno inconfutabile che parla di decadenza. Al rapporto tra scienza pedagogica, didattica e buone pratiche di insegnamento si è sostituita una burocratica vita di routine, un oscuramento dei fini, una perdita generale di passione per il futuro. La scuola è sempre la filigrana di come una società pensa il suo futuro. Oggi questa filigrana è logorata, quasi scolorita dal tempo e dal disinteresse generale.
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Queste mie riflessioni non vogliono però percorrere un’analisi di quello che la cosiddetta “buona” scuola produrrà nel nostro paese, piuttosto vorrei indagare i motivi per cui la cultura autenticamente riformatrice si è fatta liquidare dalle idee dominanti del neocapitalismo.. Di questo infatti si tratta, della più grande sconfitta culturale e politica della nostra storia repubblicana. Una sconfitta estesa, disperante, tanto più grave per un paese che ha conosciuto vette eccelse di esperienza educativa. Un paese che ha conosciuto grandi aggregazioni intorno alla scuola, studenti, insegnanti, operai, oggi è travolto dalla stessa intraprendenza che aveva tentato. Il movimento degli insegnanti, gli studenti e il cambiamento politico e sociale del dopoguerra, le 150 ore come scalata al cielo della cultura del mondo degli esclusi, il movimento di (cooperazione educativa come università di massa del sapere pedagogico, oggi appaiono vette raggiunte e causa stessa di una grande disastrosa caduta. Ne scrivo senza alcun atteggiamento nostalgico, ma come presa d’atto di i una verità inconfutabile.
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Cosa non ha saputo innovare la sinistra, come ha potuto il pensiero pedagogico appassire e rifluire su marginalità che lo hanno estromesso dal dibattito reale sul cambiamento? Come hanno potuto nuovi chierici della politica far rifluire le passioni innestate nella vicenda secolare della scuola e dell’educazione? Certo un popolo senza scuola e senza cultura è un popolo senza democrazia. Forse ha prevalso questo progetto umano dì depotenziamento dei saperi per avere sudditi e non cittadini. Ma non basta per spiegare.
La linea portante che questo governo conduce sulla formazione è nel cambiamento del paradigma fondamentale che la Costituzione affidava alla scuola pubblica. Insieme alla salute, al lavoro, la formazione è riconosciuta come parte costituente della cittadinanza e della democrazia.
Affidando alla scuola l’educazione dei piccoli la famiglia fa un passo indietro, fidando che lo Stato garantisca una formazione plurale e indipendente, autonoma dai comportamenti e valori ambientali, aperta a esperienze plurali. Gli insegnanti devono alla scienza e a un codice deontologico autonomo la li responsabilità di questo compito enorme. In questo consiste la libertà della scienza e dell’insegnamento. La scuola pubblica non può essere il prolungamento della formazione familiare ma un suo ampliamento, immersa nelle contraddizioni sociali per un esperienza sociale completa dei piccoli. La “buona” scuola in controtendenza, introduce pesantemente la logica della competizione, dell’organizzazione “aziendale”, la scelta degli insegnanti da parte del dirigente scolastico, che garantirà oltre il possibile clientelismo, solo omogeneità e subalternità. Sembrano scelte solo melense, eppure ad uno sguardo più attento appaiono forme di costruzione della società moderna e avanzata senza democrazia.
La famiglia torna ad essere pesantemente proprietaria dei propri figli, chiede controllo sugli insegnanti. La privatizzazione usa l’impoverimento della scuola pubblica come strumento per il passaggio di controllo ai suoi finanziatori privati, le chiese, le aziende, l’ambiente sociale.
Ma la vera domanda è: dove può cercare una strada alternativa chi, a sinistra diremmo, vuole aggiornare una strategia per il cambiamento della scuola, in quanto istituzione repubblicana e soprattutto come sfida culturale e pedagogica alle idee e pratiche neocapitalistiche?
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La scuola ovviamente è cambiata profondamente nella sua relazione con la società. Lo stesso modello costituzionale si relazionava con un paese scarsamente avanzato socialmente, con ampie sacche di analfabetismo tradizionale. Il diritto allo studio è stata la rivendicazione portante di un’intera stagione di lotte politiche e sindacali. Diritto da estendere a tutti, per un congruo spazio di tempo. Diritto ad una scuola unitaria, nella didattica e nei contenuti culturali. Alfabetizzare indicava un vuoto da riempire, una mancanza da colmare.
Qui il pensiero riformatore si è impigrito, non ha saputo andare oltre. Non ha colto dati nuovi sulle forme di alfabetizzazione sociale e dei nuovi analfabetismi. La scuola perdeva di peso relativo, altri soggetti si sviluppavano e determinavano anche precocemente vere scuole parallele, nuove forme di organizzazione del senso comune e della cultura.
La scuola ha ritenuto di essere ancora l’unica protagonista di un processo sociale dì alfabetizzazione e non coglieva che le era cresciuto intorno un sistema sofisticato di alfabetizzazione, spesso più rapido e efficace, sempre più pervasivo.
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Mi limiterò a indicare due soggetti educanti che da decenni contendono alla scuola il ruolo di formazione delle nuove generazioni. Innanzi tutto il sistema delle merci, l’universo dì simboli e significati che costruiscono un mondo, organico e coinvolgente. Una scuola permanente per il cittadino consumatore. Ma vedremo meglio in seguito. Ancora la rivoluzione digitale, il sapere in rete, grande quanto largo il mondo, è cresciuto accanto alla scuola tradizionale; anche la rete si è mostrata sistema pervasivo e concorrente.
La difficoltà a pensare una riforma della scuola sta nel non cogliere la relazione tra questi sistemi di formazione. In questo oscuramento si è inserita la strategia della scuola mercato, impresa, concorrenza, meritocrazia, tecnicismo. La cooperazione educativa rappresenta lo scenario antitetico alla scuola dei presidi manager che scelgono gli insegnanti, determinandone le carriere e lo status salariale. La cooperazione educativa sa risolvere anche il problema della valutazione dei risultati, in una prospettiva di autogoverno e di autocorrezione delle procedure formative. La pedagogia tradizionale che aveva alimentato la scuola del diritto allo studio è apparsa obsoleta, retorica, esercizio filosofico. Le didattiche efficientistiche, la scuola dei test e delle tassonomie hanno fatto egemonia. La scuola dei valori democratici e sociali si è scoperta troppo fragile rispetto alle efficienze misurabili. Una controriforma complessiva, uno spostamento di paradigma. La scuola tradizionale o ha ceduto o si è smarrita.
Senza una dimensione cooperativa l’insegnamento rifluisce in una pratica individualistica, burocratica, notarile. Senza un ragionamento sui fini la scuola sa solo prendere atto delle differenze culturali che in essa abitano. Da strumento che dovrebbe rimuovere i ritardi e le povertà culturali, come auspica la Costituzione, a luogo di presa d’atto dell’esistente dando così alle disuguaglianze culturali una certificazione giuridica.
Non ha la scuola saputo guardarsi intorno. Pensava che i piccoli che gli venivano affidati fossero eterni e disincantati analfabeti da colmare con saperi e conoscenze.
Quei piccoli a scuola giungevano da un mondo già ampiamente costituito. Fin dalla nascita erano stati esposti ad un’altra scuola, potente e pervasiva.
Con frequenza ossessiva uno spot televisivo ci ricorda il nostro modello di vita. “Le tue marche, la tua storia”. Una sintesi che racconta quanto sia diventata determinante nella costituzione della nostra identità la relazione, reale o immaginaria, con il mondo delle merci. Una condizione che accomuna ogni condizione e classe sociale, sia che il consumo sia reale sia che agisca come desiderio. Questo svela la natura trasversale alle classi di questa esperienza precoce. Non esiste sistema educativo, né luogo di trasmissione di valori e di comportamenti tanto pervasivo quanto l’esposizione al sistema complesso e articolato delle merci. Nasciamo in quel reticolo simbolico e dalle merci riceviamo le gerarchie dì valore, i nessi interpretativi delle cose e degli altri esseri umani.
Un tempo l’educazione era un portare con mano dal non sapere alla conoscenza le persone, soprattutto ì piccoli. Oggi questo non è più, siamo da sempre collocati nel mezzo di un sapere e di una cultura organizzata, non solo nell’occidente consumista; consumare e/o desiderare hanno dimensione globale, costituiscono un linguaggio universale.
Per questa ragione il moderno analfabetismo deriva più dall’eccedenza delle informazioni e dei simboli che dalla loro privazione. I saperi, come le merci, ingorgano e creano un rumore dì fondo in cui non è facile acquisire un sapere utile e critico. Una pedagogia efficace dovrebbe, in ogni epoca della vita, decostruire criticamente questo ambiente affollato di “saperi” e simboli. Forse in questo contesto va cercato il nodo cruciale della crisi “educativa” della famiglia, della scuola e dì ogni altro soggetto che intenda, in ogni epoca della vita, comunicare un suo sistema dì interpretazione del mondo.
Non solo quindi le merci, consumate e/o desiderate, insegnano molte cose del mondo e regolano l’orizzonte della realtà, ma esse stesse veicolano un senso e stabiliscono relazioni tra le persone. Si aggiunga anche che la cultura, in quanto merce, posseduta, acquistata, scambiata, non sfugge a questa dimensione “totalitaria” dei processi di formazione del senso comune.
Per reagire all’analfabetismo da eccedenza si deve considerare la cultura come una paziente operazione di scomposizione, ricostruzione delle nozioni, ricomposizione critica delle informazioni, risistemazione delle gerarchie di valori, un’abitudine a considerarne la genealogia. Per capire perché ho un’opinione, devo sapere come e perché si è formata. La magia, e la miseria, delle merci sta nell’essere realtà senza svelare il processo di produzione, il lavoro, la sofferenza, lo sforzo, il costo che ne permettono l’esistenza.
I processi di formazione della cultura, come il vero sapere critico, devono fare i conti con la genealogia, la storia e l’origine, della realtà presente, unica condizione per non subirla e poterla liberamente cambiare e determinare. La crisi della democrazia ha molto a che vedere con questo stare acriticamente in un mondo già tutto dato, in cui le informazioni e i saperi, per il fatto stesso che sono trasmessi, assumono verità e credibilità. Sempre più il potere sta nelle mani di chi riesce a manipolare e governare l’universo dei simboli e delle merci.
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Una ricostruzione dei saperi condotta in cooperazione critica con gli altri, in una rete che sì alimenta di dubbi e di domande è l’unico antidoto ad una tendenza che ci fa apparentemente più istruiti ma in verità più fragili nella conoscenza e nella capacità di interpretazione della realtà. Anche il ricorrente bisogno di trovare un’identità nel sacro e nella trascendenza è un segno di un indebolimento generale della conoscenza critica e dell’opprimente mercificazione del sapere. Quanto lo è l’asservimento della scienza al mercato.
Così, nel declino della curiosità e dell’indagine critica, viene a mancare alla società un possibilità fondamentale di liberazione e autodeterminazione
Allo stesso ordine di problemi appartiene la questione della grande trasformazione digitale della vita simbolica e culturale. Il web è il nuovo protagonista della trasformazione culturale, concorrente della scuola tradizionale.
La dimensione digitale porta velocità, semplificazione, parcellizzazione del sapere. Le informazioni sovrastano la riflessione critica, l’arte combinatoria delle informazioni che produce cultura si affievolisce. La scuola guarda disarmata, vorrebbe solo portare al suo interno la fascinazione della cultura digitale, ma pensa che ciò consista solo nell’introduzione di tecnologie digitali all’interno di un processo formativo immutato.
Se si fa attenzione il sapere digitale è l’assoluto stare nel presente, poter fare a meno della dialettica tra passato e futuro. La scuola che non ha mai saputo sanare la cesura tra le due culture, quella storica/retorica e quella scientifica è investita e devastata da questa dimensione dei totale presente. La cultura umanistica sempre più retorica e quella scientifica sempre più astorica. La scuola era la chance per portare spessore e profondità a questa dimensione della cultura digitale, combinare velocità e riflessione.
L’operazione non riesce, perché non cambiano grammatiche e sintassi complessive della conoscenza. La scuola vive come un insuccesso la mancata performance ai livelli della cultura digitale. Non riesce a recuperare la sua specificità di luogo della decifrazione dell’universo simbolico globale. La scuola non percepisce la sua ricchezza, che sta nella manipolazione del mondo simbolico in un contesto sociale, in un piccolo gruppo, in una comunità in cui idee e sentimenti stanno insieme. Imparare in società è la sua ricchezza trascurata. Il mondo digitale porta con sé un sovraccarico informativo che insieme al mondo delle merci, produce ancora analfabetismo da eccedenza. Imparare non può essere solo aggiungere, ma necessita dell’arte difficile del comporre, semplificare, portare le informazioni in un nuovo contesto coerente. Conoscere non e solo guardare ma vedere, nel senso greco del termine. Vedere farsi un’idea, cogliere il nesso profondo, di difficile decifrazione, tra le informazioni. La conoscenza frutto dell’eccedenza rimane superficiale, arrogante, non si alimenta della critica e del dubbio. Insomma produce una vera novità antropologica che la scuola non sa affrontare.
La pedagogia non ha saputo guardare più con occhi multipli a questa realtà complessa e la scuola non ha più saputo inventare una didattica adatta a queste sfide. La sinistra, tra le sue disfatte, ha quella educativa da contare, la disfatta educativa è anche all’origine della sua totale crisi politica. Non c’è nuova cittadinanza senza nuova cultura e senza nuova educazione. Questo paese conosce la più grave crisi dei gruppi dirigenti della sua storia. Ma questa decadenza della politica fotografa una generale decadenza culturale e morale del popolo. La scuola potrebbe correggere questa tendenza, non ci riesce, forse ormai neppure più la tenta. Si adagia sulle routine, unica garanzia che il sistema funzioni. I soggetti professionali sono centrifugati nell’anomia più totale. Imparare e insegnare sono attività relegate più ad un rituale che a una grande occasione per cambiare e determinare in maniera originale il futuro. Un tempo tra insegnanti si faceva un gioco. Raccontarsi il proprio tavolo di lavoro, le proprie letture, gli interessi. Era un gioco rivelatore di come queste professioni hanno bisogno di un contesto. La sola competenza non produce cultura, il contesto descrive interessi collaterali, fino all’impegno politico. Nella scuola c’è stato sempre un feroce scontro tra destra e sinistra perché queste appartenenze determinavano il progetto educativo, il punto di vista sul passato e sul futuro. Nessun altro luogo ha conosciuto la crudezza di questa contrapposizione. Qualcuno furbescamente ha relegato tutto a ideologia. Come se poi ideologia fosse quel negativo assoluto che è diventato. Ancora inversione di senso delle parole. Questo scontro nella scuola, insegnanti e studenti, è parte fondamentale della storia della nostra democrazia. Tutto dissolto, la marginalizzazione della scuola è causa ed effetto di questo fenomeno.
Non è però mai tutto perduto. Bisogna, noi nani, risalire sulle spalle di giganti e vedere se si può procedere, senza illusioni e con la vertigine nel cuore.
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La buona scuola è possibile se cerchiamo, a mio parere, soluzioni politiche, didattiche e culturali secondo tre linee di indagine. La scuola pubblica, la didattica della decostruzione, le pratiche di decifrazione.
Quando dico scuola pubblica, non penso solo all’aspetto giuridico e istituzionale. Scuola pubblica o meglio scuola come bene comune, è la scuola senza proprietari. Una scuola fondata sulla riproduzione democratica della società, una scuola con le stesse differenze che si esprimono nella società. La scuola pubblica è la scoperta della diversità, la possibilità di un’educazione civile come preparazione al mondo così come è. La scuola pubblica non è il prolungamento dell’esperienza familiare, ma la scoperta di altri mondi, idee e valori. La buona scuola, per combattere l’analfabetismo da eccedenza, dovrebbe prevalentemente sviluppare la decostruzione dei saperi, valori, comportamenti acquisiti senza intenzione e progetto. I soggetti, come la società produce, hanno bisogno di ritrovare una capacità critica, di ereditare il mondo non accettandolo così come è, ma reinventandolo in una nuova dimensione personale. L’universo simbolico del mondo delle merci conduce il bambino a scuola già con un bagaglio culturale formato e organizzato. Un mondo automatico che si è formato attraverso la pura vita. Non un vuoto da colmare, ma un pieno da riorganizzare. La buona scuola dovrebbe svilupparsi anche come il luogo critico della società digitale, concorrere alla formazione di un paradigma dei saperi, dialettico con il sapere digitale e con la società delle merci.
Il mondo digitale ha introdotto nell’esperienza umana dimensioni conoscitive, linguaggi e sintassi nuove e fino a ieri impensabili. I bambini, nativi digitali, sono precocemente invasi da questa dimensione. La loro mente è plasmata dall’uso precoce delle schermate elettroniche, dalle tastiere e dalle espressioni tattili dei nuovi strumenti. Mente e fisicità trovano nuove dimensioni, sono in una rivoluzione simile a quella indotta a suo tempo dal libro. Questo mondo può/deve trovare nella scuola un luogo opportuno per un lavoro importante di decifrazione. La cultura digitale è per sua natura ellittica, breve, rapida. Un codice che non favorisce l’approfondimento e lo scandaglio. Il linguaggio digitale è di sua natura fattuale, richiama azioni, risposte rapide. E’ una comunicazione che per avere efficacia e emergere dalla quantità enorme delle informazioni deve ricorrere alla ridondanza. La ridondanza per vincere il rumore di fondo, il sapere “virale” tipico del web.
La ridondanza è efficace ma come prodotto di scarto produce appiattimento tra rilevanza del primo piano e sfondo. L’assenza di chiaroscuro concettuale produce una forma specifica di analfabetismo. La scuola può essere uno strumento per decifrare questi codici, offrire alternative sintattiche all’universo dei segni del mondo digitale.
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Reinventare la scuola repubblicana sta in questa impresa, culturale e politica. Mentre scrivo il mondo degli insegnanti vive lo shock dei primi provvedimenti della “buona” scuola. La riforma della scuola sta, prima di tutto, nelle mani degli insegnanti. Le lotte degli insegnanti sono un impasto di resistenza e di percezione del cambiamento. Questa ambiguità è la loro forza e debolezza. Nel nostro paese la storia politica del movimento degli insegnanti si è profondamente intrecciata con la storia di un gruppo sociale che è stato definito di intellettualità di massa, medici, magistrati, giornalisti. Questo gruppo sociale è sempre stato consapevole di essere in un punto nodale dell’evoluzione culturale del paese. Un gruppo teso tra tradizione e innovazione, conservazione e cambiamento. Questo gruppo sociale oggi subisce una marginalizzazione enorme. Ridotti i margini salariali, ma soprattutto umiliato il ruolo sociale. Nella società della destrezza e della furbizia come valori di mobilità sociale, l’educazione e l’insegnamento sono questioni in declino. La cosiddetta autonomia scolastica ha solo ricondotto i piccoli alla dimensione dí proprietà della famiglia. La scuola, da luogo dello svezzamento culturale, è tornata ad essere conferma e riproduzione dell’origine biologica delle nuove generazioni.
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Con quali strumenti è possibile tentare un cambiamento? Non credo più che la via istituzionale e politica sia percorribile. Troppo dissestata la strada, troppo disperse le forze. Penso ad una strategia molecolare, insegnanti, cittadini e giovani, insieme in progetti governabili e osservabili. L’insegnamento, anche nelle sue dimensioni di massa, ha sempre conservato una dimensione di lavoro artigianale. L’unicità della condizione umana sfugge alle scorciatoie della standardizzazione educativa. L’educazione è sempre un triangolo, io, tu, noi. Questo elemento anomalo costituisce il punto originale della scuola rispetto ad altri mondi formativi. Fare scuola è scrivere insieme biografie, percorsi umani irripetibili. Del mio passato di insegnante questo ricordo e mi rimane, aver contribuito a scrivere biografie. Le biografie sono le immagini intellettuali della tensione tra passato e futuro, sono l’identità di ciascuno di noi.
Penso alla riforma della scuola come un processo, appunto molecolare, di insegnanti e studenti, cittadini, consapevoli che democrazia è soprattutto osservabilità e controllo dei processi in cui si è inseriti. Un rinascimento come rete di “botteghe” dove conservazione del passato e invenzione sappiano reciprocamente alimentarsi. Una scuola pubblica, ma non dello Stato, rete di imprese di comunità che percepiscono la dimensione complessa che intercorre tra cultura e politica.
C’è un centro motore di questo processo. Gran parte della riforma della scuola è riforma dell’insegnamento e degli insegnanti. Ma questo è o quello che più è stato mortificato nella scuola. Insegnare appartiene a quelle funzioni sociali che per avere successo hanno bisogno di esperienza, conoscenza e condivisione dei fini sociali del proprio lavoro. Per essere un buon medico, un buon giornalista, un buon insegnante devi essere competente, ma (devi scegliere la, tua parte, il tuo punto di vista sul mondo. Stare a sinistra è diverso che stare a destra. Il conflitto non è una iattura, ma un alimento. Insomma ci sono professioni politiche, esse emergono dai bisogni della polis, pena un inevitabile declino e imbarbarimento collettivo.
Da Alternative per il Socialismo, ottobre-novembre 2015, n.37