Renzi, Gentiloni, Alfano, Mogherini, nonché Salvini come rappresentante della politica «ruspante» che approfitta del «non detto» per gridare che «il re è nudo», farebbero bene per prima cosa a consultare la propria coscienza.
Subito dopo, dovrebbero sforzarsi di usare termini adatti al tema doloroso dell’emigrazione irregolare (non clandestina, perché avviene alla luce del sole o delle stelle) verso l’Italia mediante barche e barconi che spesso affondano.
Anche la lettura di un libro di storia li aiuterebbe a capire che il paragone fra questo traffico e il commercio degli schiavi è inappropriato. Sorprende che vi facciano ricorso pure intellettuali come Ainis e Magris. Di chi sarebbero «schiavi» i profughi? Dei mercanti o del mercato? Se i due fenomeni avessero veramente qualche similitudine, l’accostamento equivarrebbe ad ammettere che in Italia, in Europa e nel mondo industrializzato vige un sistema di produzione prossimo alla schiavitù o comunque retto da rapporti così iniqui da far pensare alla schiavitù.
La tratta in direzione delle Americhe che durò due secoli e mezzo fra Cinquecento e Ottocento prevedeva razzie di persone libere, prima uomini e in un secondo tempo anche donne, mai bambini, destinati a essere trasportati attraverso l’Atlantico e venduti come schiavi una volta giunti sulla coste dell’America. Le razzie erano compiute a cura di autorità africane che provvedevano all’accompagnamento dall’interno alla costa.
Le compagnie, variamente legate a paesi europei, comparivano nel momento della compravendita e quindi dell’imbarco e della partenza. I punti di attracco venivano chiamati «del non ritorno”» Sorgono nell’Africa occidentale – a Cape Coast, Elmina, Gorée – i memoriali e i musei dell’Olocausto nero. Gli schiavi erano incatenati e imbarcati con la forza e contro la loro volontà. Anche i negrieri del Duemila vanno a cercare il loro bottino ma si tratta comunque di gente disponibile e che addirittura li cerca pur conoscendo le violenze e i soprusi che tutto ciò comporterà.
Le navi negriere compivano il loro servizio per conto degli Stati europei. Per più di due secoli furono viaggi assolutamente «legali» ancorché mostruosi da un punto di vista morale. L’unico aspetto comune è l’alto tasso di mortalità che comportavano e comportano le due traversate. La tratta degli schiavi divenne illegale solo con la sua interdizione all’inizio dell’Ottocento sotto la spinta dell’abolizionismo di missionari e menti illuminate, prima in Inghilterra e poi negli altri paesi europei. La schiavitù fu abrogata qualche decennio dopo la proibizione della tratta. A questo punto le navi negriere erano perseguite perché violavano una norma internazionale. Gli schiavi liberati venivano sbarcati dalla Royal Navy in Sierra Leone (da altre unità navali in Liberia, Gambia o Gabon).
I migranti di oggi, con molti bambini al seguito, esprimono così il desiderio di lasciare la terra dove sono nati, o dove si trovano. È l’emigrazione della disperazione. L’emigrazione sognando un miglioramento economico è quasi scomparsa. Quella che prevale è un’opzione spontanea e insieme forzata per sfuggire a una non-vita per l’incombere di eventi gravissimi che in parte, attraverso guerre che hanno aumentato ovunque la radicalizzazione dei conflitti e la destabilizzazione regionale, sono stati indetti, promossi o sostenuti proprio da noi, Stati Uniti e Europa, Italia compresa.
C’è ancora qualcuno, a Roma e Bruxelles, che vorrebbe lanciare un’altra «operazione mirata». Come se fossero gli scafisti a produrre i profughi e non viceversa.
Qualcosa del genere fu fatto in Albania, dove erano gli albanesi però a partire, avendo a poca distanza le proprie case relativamente accoglienti. Se mai scomparissero scafi e scafisti dai porti libici, è sicuro Renzi che quel milione di africani neri che – a quanto si continua a ripetere – premono sulle coste della Libia e ai suoi confini per cogliere l’occasione del grande balzo sarebbe un atto di giustizia e un fattore di stabilizzazione?
Gli sbarchi e i naufragi stanno diventando così frequenti e ingenti da suscitare, giustamente, un allarme diffuso. Qualsiasi politica per essere sensata deve anzitutto diagnosticare la natura vera e non immaginata del problema. Le mistificazioni letterali non giovano a fare chiarezza e contribuiscono a confondere un’opinione pubblica già disorientata.
L’uso della forza non è una soluzione. Sarebbe l’epitaffio di una politica confermando che essa ormai conosce solo la guerra. Ci sarebbe bisogno se mai di una specie di «legalizzazione». Il traffico attuale è ignobile ma dov’è il traffico nobile?
Nessuno possiede ricette miracolose da proporre e realizzare anche se – senza andare troppo lontani – è accertato che Mare Nostrum funzionava meglio di Triton. Sperabilmente le cifre che circolano sono esagerate.
Comunque i flussi migratori fra paesi del Sud in uscita e in entrata sono di gran lunga superiori quantitativamente ai flussi che arrivano in Europa. Il paradigma deve essere il salvataggio-accoglienza e non il respingimento-esclusione o il «contrasto» (altro termine mai spiegato nella sua dinamica e probabilmente contro le leggi). Chi parla di «blocco navale», ovunque esercitato e a qualunque distanza fra la costa nordafricana e gli approdi in Italia o in altri luoghi della sponda settentrionale del Mediterraneo, ha il dovere di specificare se il proposito è di impedire il transito o di agevolarlo evitando attraversamenti troppo pericolosi e le tragedie quotidiane.
C’è un precedente che può tornare utile come caso di studio. Nella seconda metà degli anni Settanta del secolo scorso, l’esodo in massa dei boat people dall’Indocina – anche allora dopo una terribile guerra esportata dagli Stati Uniti, non si sa se vinta o persa – non fu sentito o presentato come una «minaccia». I profughi venivano assistiti e integrati. Pazienza se la buona volontà rientrava nella propaganda anticomunista.
Non risulta nemmeno che chi scampava ai vopos messi a presidio del passaggio fra Berlino Est e le luci di Berlino Ovest fosse penalizzato e riportato indietro dai governi dei paesi occidentali. Schindler e Perlasca che, senza senza lucro alcuno e in un’emergenza del tutto diversa (ma a leggere i giornali anche questa è «epocale»), hanno aiutato tanti perseguitati a «fuggire» sono addirittura passati alla storia come eroi.
il manifesto, 24/4/15