Qui di seguito un intervento di Massimo Tesei, prezioso per la completezza, le ipotesi aperte e la volontà di agire che esso contiene. Un contributo che apre prospettive di azione sul territorio.
Per capire quello che accade ci vuole tempo, memoria e conoscenze perché nella Storia nulla sboccia all’improvviso. Ma forse non abbiamo più la pazienza di ragionare sui tempi lunghi. Viviamo in un eterno presente.
E il presente sembra essere di chi ha slogan “pret a porter” e nessuno bada se sono semplicemente un vestito rivoltato e spacciato per nuovo.
Chi vuole veramente ragionare e capire è quasi condannato al silenzio.
Eppure una frase molto usata da tutti è “seminare l’odio”. E’ una frase perfetta. “Seminare”, per definizione, presuppone tempo e cura: vangare il terreno, concimare, annaffiare, curare i germogli, legarli a canne più robuste… E per seminare l’odio occorre altrettanta cura. Per questo per capire occorre pazienza e potrebbe essere utile andare molto indietro nel tempo.
Da più parti, a volte anche le migliori, si chiede (anch’io lo chiedo) che i musulmani, europei e non, prendano le distanze dagli orribili metodi e dalle ancor peggiori finalità dei terroristi e dei sedicenti califfati.
In realtà lo fanno. Il capo degli Imam francesi ha dichiarato: “Noi musulmani di Francia siamo ostaggi di due mostri: l’integralismo che arruola i nostri figli e il razzismo anti-arabo”. La situazione dei musulmani in tutto il mondo ha anche la paradossale caratteristica che li vede vittime del terrore integralista (di tutti i morti per mano degli integralisti islamici, il 90%, forse più, è musulmano) e contemporaneamente sono tutti additati come terroristi (domenica 11 gennaio, Salvini ha dichiarato che rischiamo tutti di essere accoltellati da 3 milioni di musulmani!).
I musulmani europei hanno partecipato in massa a tutte le manifestazioni europee, prendendo la parola e accusando “l’integralismo che sporca l’Islam”. Ma a volte vorremmo, con malcelata impazienza, che lo facessero di più, più in fretta e all’unanimità.
Credo che sia evidente che all’interno del mondo islamico ci sia una guerra. Credo che non sia il tradizionale scontro tra Sciiti e Sunniti, che pure c’è, e vede schierati Arabia Saudita e Iran e i loro rispettivi alleati locali. Si tratta di qualcosa di nuovo, di non ancora assestato. Qualcosa che si nutre di vecchie rotture all’interno dei sunniti, di nuove situazioni nate in Iraq e in Siria, della crisi economica mondiale, dello smarrimento dei giovani musulmani in patria e in Europa, del progetto europeo “congelato” e inefficace nelle risposte da dare sul futuro dei giovani in generale e di quelli immigrati in particolare.
Forse è troppo complicato da capire per noi europei.
In questi giorni, da varie parti, esponenti musulmani hanno invitato le proprie comunità a chiedersi cosa stia succedendo e se non sia ora di protestare apertamente contro un’interpretazione dell’Islam assolutamente minoritaria, violenta e blasfema. Chi frequenta amici musulmani sa che sono tutti sotto choc. Sarebbe un errore non comprendere queste drammatiche difficoltà e pretendere lo scioglimento di questi nodi nel giro di giorni, mentre saranno necessari anni. Ciononostante siamo molto esigenti nei confronti di chi non conosciamo, non comprendiamo e, sotto sotto, forse non sopportiamo.
Lo siamo altrettanto con noi stessi e con chi ci ha governato e ci governa?
Devo fare una parentesi, perché sento già le grida di chi è a suo agio solo quando è privo di argomenti e non gli resta che alzare la voce: “Ecco il solito buonista, vero responsabile di quel che succede!” La parola “buonismo” è stata inventata dalla destra italiana per ridicolizzare il volontariato. Ma ormai viene usata per ogni causa su cui la destra non vuole discutere. Non sono un buonista. E non sono nemmeno un pacifista “senza se e senza ma”. Penso, e non da ieri, che contro l’Isis bisognerebbe usare le maniere forti. Più forti possibili. Ma non come hanno fatto gli Stati Uniti fino ad ora in simili frangenti: ad esempio finanziando contro i sovietici, tramite il Pakistan, i fondamentalisti afghani e Bin Laden; o come hanno fatto Arabia Saudita e Qatar che contro l’Iran hanno armato e finanziato l’Isis. Poi agli Usa e agli altri tutto è sfuggito di mano. Le maniere anche forti possono essere usate da un vero intervento internazionale, quindi anche europeo, quindi anche italiano, e non può che partire da un aiuto totale al popolo curdo, cominciando da Kobane, città martire in prima linea contro il terrorismo dell’IS. Lì si combatte una battaglia che ha la stessa importanza della guerra civile spagnola. Vincerla o perderla fa la differenza tra la civiltà e una tragedia mondiale. Lì ci vorrebbe una polizia internazionale o le brigate internazionali. Chiusa la parentesi.
Domenica 11 gennaio a Parigi e nel resto della Francia e in tante capitali europee milioni di cittadini sono scesi in strada per ore inneggiando alla libertà, al diritto di critica e di satira e promettendo di difendere la democrazia.
E’ facile per noi parlare di libertà, di diritto di critica, di diritto alla satira anche offensiva. E’ facile parlare di divisione tra stato e chiesa. Di laicità. Di libertà di coscienza. Ci sembra così facile, così ovvio, così necessario che pensiamo che dovrebbe essere così per tutti. Ma per noi è facile non perché siamo più bravi, più intelligenti, più umani, ma solo perché c’è stata la Rivoluzione Francese.
Vorrei ricordare che dal 1100 in Europa c’è stata l’Inquisizione cattolica per SECOLI. Noi tutti dobbiamo quasi tutto prima alla vittoria di Elisabetta d’Inghilterra contro Filippo II di Spagna e poi alla Rivoluzione francese.
Il re Ferdinando morì il 23 Gennaio 1516 e nel suo testamento, fatto la vigilia della morte, diede il seguente ammonimento a suo nipote Carlo V : « … siccome senza la fede ogni altra virtù rimane sterile, ordiniamo a nostro nipote, Serenissimo Principe, di dedicare i suoi sforzi, sempre, alla glorificazione de la Fede Cattolica, ed alla estirpazione dell’eresia dall’Impero; di scegliere Ministri devoti a Dio, che governino con buona coscienza l’Inquisizione, per la gloria di Dio… ». Mettete “Califfato” al posto di Impero, Al Baghdadi al posto di Serenissimo Principe e Allah al posto di Dio. Che effetto fa?
Soltanto la forte influenza sulla mentalità dei popoli, portata dalla Rivoluzione Francese, riuscì ad estirpare completamente la piaga dell’Inquisizione.
Senza la Rivoluzione Francese, saremmo così illuminati, così libertari, così democratici? Ricordo che una quindicina di anni fa, quando aveva il vento in poppa del papa santo subito, del Cavaliere e degli affari facili per la Compagnia delle opere, Comunione e Liberazione accennò un tentativo di campagna contro la Rivoluzione Francese e tutto quello che rappresentava, che per loro era solo ghigliottina, sangue e ingiustizie contro la Chiesa.
Altri paesi e altri popoli non hanno conosciuto da vicino la Rivoluzione francese, non l’hanno studiata, non l’hanno nemmeno letta. Però hanno conosciuto da vicino i francesi. E anche gli italiani, gli inglesi, gli americani, gli spagnoli, i portoghesi…
Mi lascio soccorrere volentieri da Alexis Jenni, professore e scrittore francese, autore de “L’arte francese della guerra”, un libro che considererei un assoluto capolavoro se fossi all’altezza di simili giudizi categorici (comunque, il libro ha vinto nel 2011 il prestigioso Premio Goncourt…)
In questo romanzo, si racconta -meglio, come spesso accade, che in un libro di storia- cosa sono state la guerra in Algeria e quella in Indocina. Come siano state inflitte torture di massa, come la vita degli algerini e dei vietnamiti valesse zero. I due fratelli algerini responsabili dell’attentato al Charlie Hebdo forse sapevano poco di quello che è successo più di 50 anni fa o forse sapevano più di noi. Ma non ha molta importanza, perché non penso che ci sia un rapporto di causa ed effetto così diretto.
Il problema è che poi è successo altro. Abu Graib e Guantanamo sono per noi un incidente in fondo marginale. Abbiamo preso le distanze? Accetteremmo di essere considerati complici?
Non possiamo dimenticare (ma i più non lo hanno mai saputo) che durante la guerra in Iraq qualunque cosa necessaria ai soldati americani arrivava dal Kuwait. Ogni giorno 800 camion si dirigevano verso nord per rifornire di tutto i soldati. Percorrevano due grandi strade, sulle quali spesso c’erano attacchi o attentati. Le truppe con la più alta percentuale di “stress disorder” erano quelle che scortavano questi camion. Il problema fu in parte risolto con i “contractors” (indiani e di altri paesi). Quale fu il risultato finale? Dai camion e dalle scorte veniva aperto il fuoco contro chiunque transitasse su quelle strade, che erano utilizzate da tutti. Bastava poi dichiarare che “guidava in modo aggressivo”. Quanti furono i morti? Esattamente non si sa. Ma furono centinaia, forse migliaia. Cittadini inermi, famiglie intere, malcapitati.
“L’ironia è che, in 18 mesi di pianificazione, l’interrogativo chiave sostanzialmente non venne mai posto da nessuno: che cosa fare dopo essere arrivati a Baghdad? Franks, Rumsfeld, Wolfowitz, Feith e altri alti ufficiali dedicarono oltre un anno a prepararsi ad attaccare l’Iraq, ma considerarono quasi superficialmente quello che sarebbe venuto dopo.” (“Il Grande Fiasco”, Thomas E. Ricks, -2 volte vincitore del Pulitzer- Longanesi.)
Questa irresponsabilità dei grandi pianificatori, degli strateghi, degli “statisti occidentali” di NON farsi la domanda sul “dopo” è cominciata con l’intervento in Somalia. Risultato? La Somalia non esiste più come stato, è solo un territorio diviso per bande.
Abbiamo preso le distanze?
No, non le abbiamo prese. Tanto è vero che il metodo Somalia, che è la dimostrazione di tutto quello che NON si deve fare, è invece diventato IL METODO. E la stessa sorte è toccata così alla Libia, all’Iraq, alla Siria, in parte allo Yemen, in parte al Mali, in parte alla Nigeria. Non mi appassiona il complottismo, ma ci sarebbe da sospettare che ci sia un disegno.
Quante “prese di distanza” abbiamo reso pubbliche? Ci siamo in qualche modo sentiti responsabili? E Bush? Mentitore, guerrafondaio, uomo di mano dei petrolieri americani è uno dei nostri, no? Ed è stato rieletto nella patria della libertà e della democrazia! E già s’avanza un altro Bush per il 2016! La vita degli irakeni ne è uscita sconvolta, distrutta. Più di 100mila morti, in gran parte civili.
Fuori dall’ipocrisia, il fatto è che 17 persone uccise a Parigi (eroiche persone, l’incarnazione delle libertà di tutti) pesano molto di più di 100mila morti irakeni (che eravamo andati a liberare e a democratizzare, non dimentichiamolo). Gli altri, qualche milione, li abbiamo infine lasciati in preda ad una guerra civile che non fa prigionieri.
Che segnali sono stati questi? Come li hanno vissuti i musulmani?
E taccio sulla condizione del popolo palestinese, che da almeno 67 anni aspetta di avere un proprio stato. Quand’è che noi europei penseremo di aver pagato abbastanza il prezzo in termini d’incredibilità, di incoerenza, di ipocrisia che i Governi israeliani continuano a chiederci?
E anche questo, che segnale è stato per i musulmani?
Credo che dobbiamo scendere dal piedistallo. Non possiamo usare due pesi e due misure in un modo così sfacciato.
L’uomo non è buono o cattivo per natura. E’ un animale sociale e tende, innanzitutto per necessità, ma poi anche per piacere, per intelligenza a vivere insieme agli altri. E cerca di capire come questo possa avvenire nel modo migliore. Ma nascono continuamente anche interessi, egoismi, sopraffazioni. E storicamente, quando di mezzo ci sono enormi interessi, saltano fuori subito le armi e c’è sempre qualcuno pronto a benedirle.
Ma la guerra di civiltà vera continua a essere la più antica: quella dei ricchi contro i poveri.
Ecco perché la nostra commozione nell’ascoltare la Marsigliese, nel sentire le parole magiche Liberté, Egalité, Fraternité, ai musulmani che vivono in Europa e a quelli che vivono nei loro paesi suona strana. Perché nei loro paesi continuano a essere poveri, e nei nostri si sentono poveri anche di libertà, di uguaglianza e di solidarietà.
E’ per questo che nascono le comunità. Per paura, per solidarietà, per sentirsi accettati, per identificarsi, per sapere chi si è. Ma le comunità si contrappongono alla democrazia, e possono farle molto male, se essa non è inclusiva, non è solidale, non è concreta. Le stesse immagini che usiamo per parlare della comunità sono negative, perché sono immagini rigide, che spingono ad una identificazione “per natura” o per storia. Si fanno forti del passato. Sono le immagini dell’albero e delle sue radici che si piantano ben bene nel terreno, che sono profonde e impediscono che quell’albero si possa muovere, pena la sua morte. Oppure sono le immagini che scendono dall’alto e che identificano una comunità sulla base del suo rapporto con il divino. Un rapporto solo verticale, un movimento dall’alto al basso e viceversa. Mentre forse l’immagine più giusta, e per me più bella, dovrebbe essere quella orizzontale, quella che fa assomigliare le comunità a un fiume, ai suoi affluenti, alla loro capacità di incontrarsi, di mescolarsi, di procedere e di crescere insieme. Solo queste comunità possono accettare di essere realmente democratiche.
Quindi ci vuole tempo per tutto. Non possiamo essere impazienti ed esigenti, perché in fondo siamo tutti gnomi sulle spalle di giganti. E se i nostri giganti ci permettono di vedere più lontano sia nel passato che nel progettare il futuro, dobbiamo far vedere e toccare con mano quali risultati concreti ne derivano. Il paradosso è che i nostri giganti hanno grandemente beneficiato nel passato della grandezza di giganti musulmani.
Scriveva domenica 11 gennaio Franco Cardini: “Crociate e jihad hanno avuto nella storia dell’umanità un peso infinitamente minore della Via delle Spezie, della Via della Seta, della filosofia greca restituita all’Occidente attraverso le traduzioni arabe (ed ebraiche) circa tre secoli prima del ritorno ad esso dei testi ellenici antichi; di Ibn Rushd (sec. XII), arabo musulmano iberico il cui commento ad Aristotele fu studiato da Tommaso d’Aquino e da Dante; della medicina indiana, cinese e persiana passata attraverso la mediazione del tagiko musulmano Avicenna (secc. XI-XII) alla nostra Europa; della matematica, dell’astrologia-astronomia, dell’alchimia-chimica, trasferite fin dal medioevo dal mondo musulmano a quello cristiano; delle notizie in materia di architettura, di geografia e di cartografia, passate attraverso i medesimi canali. Tutto ciò appartiene con sicurezza alla nostra cultura, è dominio acclarato di essa: eppure i mass media continuano imperterriti a parlare solo del «feroce Saladino» e del «Mamma li Turchi».
In conclusione, del tutto provvisoria e discutibile, dobbiamo porci come un nostro problema importante -anzi: irrinunciabile- il coinvolgimento delle comunità musulmane che vivono nei nostri territori nelle iniziative in cui vogliamo difendere i diritti umani, le libertà, la democrazia. Non possiamo pensare che manifestare per Parigi con o senza i musulmani sia la stessa cosa. E non valgono giustificazioni del tipo: gliel’abbiamo detto, se poi non vengono, affari loro! Così come è tanto importante quanto delicatissimo manifestare contro Boko Haram e gli eccidi in Nigeria. Boko Haram sta assassinando cristiani e musulmani moderati. I motivi solo strumentalmente sono religiosi, in realtà hanno a che fare con storiche divisioni interne, con il petrolio, con equilibri regionali. Manifestare senza nemmeno porsi il problema di coinvolgere i musulmani significa favorire quell’immagine di scontro tra civiltà e tra religioni che tanti auspicano.
Gennaio 2015