Si è avviato il dibattito intorno al futuro della Lista L’Altra Europa e di conseguenza sul futuro della sinistra. Importante è che si svolga pubblicamente, che coinvolga tutte/i, al di là della scomoda semplicità di una mailing list.
Ma come c’era da aspettarsi il dibattito si è avvitato su due binari quello del cosa deve essere un soggetto politico nuovo e/o la ricostruzione della sinistra? e quello sul come deve essere: come fare, quali strumenti, quale struttura, ecc…? In entrambi i casi ci pare evidente la diffusa scarsa consapevolezza della condizione nella quale versano “la sinistra”, i movimenti, i sindacati, ecc…
Lo diciamo perché da tempo proviamo a sottolineare l’urgenza di capire cosa è accaduto dal sessantotto ad oggi sia in termini di strutture produttive, mutamenti sociali e antropologici, che nell’organizzazione delle risposte politiche e sindacali… Senza la conoscenza dei processi in corso e la conseguente consapevolezza delle responsabilità soggettive e collettive (gruppi, partiti e sindacato) non è possibile riaprire un percorso di radicale cambiamento della società verso un altro mondo possibile.
Non vogliamo fare lo stesso errore e quindi per chiarezza diremo subito che non crediamo che questa esperienza elettorale (di questo si è trattato, non di altro) possa essere il preludio della ricostruzione di una sinistra radicale unitaria: non ci sono le condizioni storiche, cioè le condizioni sociali, politiche e culturali. Crediamo inoltre che per le stesse ragioni sia vano il tentativo di costruire un soggetto politico nuovo.
Non è questo il tempo, la storia ci pare dire che questi appuntamenti siano rinviati, che le condizioni storiche non lo permettano: le convivenza tra vecchie e nuove forme di accumulazione, la frammentazione sociale, la crisi della politica e con essa della democrazia rappresentativa, l’accentuazione delle forme di individualismo proprietario e delle spinte narcisistiche nella società ci dovrebbero indurre a volgere lo sguardo altrove. Forse dovremmo decisamente gettare lo sguardo oltre il recinto del classico conflitto politico, oltre il confronto istituzionale, oltre la forma-partito, oltre le schermaglie politiche, fuori dal palazzo.
Di quel “palazzo” potremmo, forse, usarne alcune prerogative per dare vita a situazioni di conflitto sociale o per approntare strumenti di analisi e conoscenza capaci di innestare percorsi antagonisti… Ma non dobbiamo dimenticare che in parte questo era il proposito del Prc ed è fallito. L’esperienza di Sel si sta, come era prevedibile, dissolvendo, quindi non c’è spazio nemmeno per il partito-movimento (l’entrismo nel PD è soluzione ragionevole, ma senza alcuna possibilità di ottenere risultati capaci di cambiare i connotati “liberaldemocratici” di quella formazione!).
Crediamo sia questa l’occasione per riaprire un confronto con la storia e rimettere in discussione il parametro fondante della politica, che Machiavelli ha ben sintetizzato leggendola come la tecnica per conquistare e mantenere il potere. Dai movimenti, a partire da quelli del ’68, abbiamo imparato che è possibile cambiare la società senza prendere il potere, e dal fallimento del “socialismo reale” abbiamo capito che nessuna forma di potere ha la forza di cambiare nel profondo una società! Rileggere questi passaggi cruciali del secolo scorso diventa indispensabile per non rimettere gli stessi occhiali in presenza di una alterazione della vista!
Ma i nostri occhi vedono un presente dinamico: le occasioni di conflitto si moltiplicano e occupano lo spazio dell’intero mondo globalizzato, sono tra loro diverse ma hanno in comune l’autorganizzazione e si muovono per un autonomo processo di autodeterminazione superando o ignorando il meccanismo della rappresentanza. E’ una condizione di rivolta non altro, che sfugge ai parametri praticati nella seconda parte del secolo scorso. Rivolte difficili da condurre a unità, difficili da racchiudere per intero nelle coordinate ideologiche del ‘900. Queste rivolte mettono insieme soggetti diversi con storie e condizioni diverse, accomunati da bisogni che si manifestano e si esprimono nello stesso momento in cui agiscono…
Ce ne sono tante, grandi e piccole, diffuse sul territorio italiano: sono rivolte di precari o per salvaguardare il territorio o per gestire spazi comuni o per la difesa del posto di lavoro… Sono le emergenze del nostro presente, cosa possiamo fare di diverso se non mescolarci con esse?
E’ evidente che nessuno ha la pretesa di rappresentare alcunché (anche perché non si fanno rappresentare: il movimento NoTav ce l’ha detto!). Ma se vogliamo davvero metterci in moto partendo dal basso, oggi vuol dire partire da coloro che la “politica” la praticano senza mediazioni, direttamente nella gestione dei bisogni concreti e non delle aspirazioni future. Dobbiamo partire da quelle comunità resistenti che stanno costruendo esperienze di vita alternative, che aprono conflitti per la difesa del territorio e il rispetto dei diritti.
Con le forze che abbiamo è loro che dobbiamo provare a connettere e riunire, è con loro che dobbiamo dialogare, è insieme a loro che dobbiamo aprire vertenze e costruire conflitti. Lo dobbiamo fare senza misurare la gradazione di rosso che quelle esperienze contengono: sono rivolte, fatte da persone e soggetti collettivi che vivono una condizione e gestiscono in comune dei bisogni e lottano per cercare una soluzione e trovare uno sbocco.
Noi siamo solo una ex lista elettorale e non possiamo correre il rischio di restare una elite, la nostra “identità” si costruisce nella ricerca e nel conflitto.
Con le forze e le risorse che abbiamo a noi pare prioritario costruire una mappa di tutti i conflitti in corso, i contenziosi piccoli e grandi aperti nei luoghi di lavoro e sul territorio. Dobbiamo censire tutti i comitati di lotta, i collettivi antagonisti, i comitati di migranti, ecc… che operano sul territorio, tutte le comunità resistenti che praticano azioni di disturbo o azioni di critica alla cultura e all’economia del tempo presente, ecc… E poi lavorare con loro e trovare i modi per mettere insieme queste esperienze…
Solo così sarà possibile dare vita a qualcosa. Abbiamo tempo, perché nell’epoca della globalizzazione neoliberista i tempi della politica buona sono lunghi. Mentre il livello istituzionale è secondario, dobbiamo costruire fin da subito “una relazione pericolosa” con i movimenti e la società, provare a dare, insieme, un respiro nazionale e transnazionale alla loro (nostra) azione…
E poi c’è un’altra cosa di grande importanza: dobbiamo avere chiara, anche nella discussione, le differenze di genere, con la coscienza che deve essere superata subito, nella pratica quotidiana, questa egemonia del maschile che discrimina, emargina e toglie spazio a quella fetta di società che ha costruito il proprio profilo lontano dalle logiche del potere (se non quando imita gli uomini). La lingua, i tempi e i bisogni espressi in questo dibattito sono prevalentemente maschili, incapaci di tener conto della molteplicità, delle sensibilità e delle esigenze possibili!
Se non ci muoviamo su questi terreni costruiremmo una nuova forza di sinistra molto simile a quelle vecchie: fatte di volontà soggettive caricate di un impianto ideologico obsoleto perché rifiuta il confronto con la prova dei fatti!.
5 luglio 2014
marco sansoè
Seguono gli interventi di Marco Revelli e Guido Viale che ci paiono assai utili e interessanti