Intervista a Aldo Bonomi
“Questi sono i costi sociali di una crisi selettiva e di una politica chiamata austerità. Invece di cominciare con le solite manfrine la politica dovrebbe mettere in agenda la soluzione dei problemi”. Aldo Bonomi, sociologo, non è affatto sorpreso dalla rabbia dei forconi. “Da anni descriviamo il disagio della piccola borghesia. Ora questa massa critica ha fatto condensa”.
La crisi che colpisce l’Italia per il sesto anno consecutivo ha causato, spiega Bonomi, la “desertificazione” di intere aree produttive improntate al fordismo e al post-fordismo. Specialmente al Nord. Ed è inutile, dice, tentare di analizzare minuziosamente il sentimento politico eversivo che animerebbero queste mobilitazioni, che per alcuni sono manipolate dall’estrema destra e dalla mafia:
“Questo non è un talk show dove invitiamo gli ospiti con un etichetta precisa: destra, sinistra, precario, operaio, imprenditore. Un tempo bastava conoscere il mestiere che uno svolgeva per capire quale partito avrebbe votato. Oggi le classi non funzionano più. Oggi parliamo di arrabbiati, rancorosi, depressi”. Alla crisi del capitalismo molecolare e dei mestieri nati con il postfordismo italico Bonomi ha dedicato il suo ultimo saggio “Il capitalismo in-finito” (Einaudi).
Barricate improvvise, blocchi del traffico, sassaiole, negozi chiusi a suon di minacce. Professor Bonomi, cosa sta succedendo?
È il risultato della desertificazione in alcune componenti della società. Non a caso le proteste più imponenti avvengono dove sono terminati i lunghi cicli dell’economia come il fordismo – pensiamo a Torino e Genova, le uniche due città un tempo autenticamente fordiste – e il postfordismo del Nordest con le sue micro-imprese ormai al collasso. La crisi di questi modelli ha un impatto sociale molto forte e dopo sei anni di autentico impoverimento non sorprende che esploda la rabbia.
Chi sono i protagonisti del movimento dei Forconi?
Sono soprattutto le persone che patiscono la fine del postfordismo italico. I piccoli imprenditori di quello che ho ribattezzato “capitalismo molecolare”, il piccolo commercio diffuso, i commercianti, i bancarellari, gli ambulanti, la logistica minuta e cioè i padroncini, i camionisti. Una moltitudine rancorosa appartenente a un modello economico che sta sparendo, una piccola borghesia pesantemente stressata dal fisco e impoverita dalla crisi che come sociologo non intercetto alle porte dei sindacati o delle associazioni di categoria, bensì alla mensa della Caritas. Un luogo dove naturalmente arrivano disoccupati e cassintegrati, ma anche appartenenti a quella composizione sociale che definirei “non più”: non più negozianti, non più commercianti, non più piccoli imprenditori. Sono anni che raccontiamo questo disagio e diamo l’allarme. E ora questa massa critica ha fatto condensa.
Pensa che queste proteste possano essere manipolate da forze di estrema destra o dalla mafia?
Invito a guardare la luna, non il dito. Ecco perché non mi interessa, per il momento, andare a capire cosa c’è dietro la rivolta. Si pensava che il ciclo dei costi sociali non sarebbe arrivato? Questi sono i costi sociali di una crisi selettiva e di una politica chiamata austerità. Invece di cominciare con le solite manfrine la politica dovrebbe mettere in agenda la soluzione dei problemi. È un invito che rivolgo anche alle forze economiche dinamiche: non è possibile occuparsi soltanto dell’economia del “non ancora” – start up e così via – senza risolvere il problema del “non è più”.
Il Viminale parla di mobilitazioni «uniche nel loro genere perché basate su azioni sporadiche e presidii improvvisi in diversi punti». Anche questo è un cambiamento nella modalità di manifestare il dissenso?
Questo non è un talk show dove possiamo invitare i rappresentanti delle categorie attribuendo le solite etichette “operaio”, “imprenditore”, “destra”, “sinistra”, “giovane precario”. Semplicemente perché queste etichette non valgono. Una volta bastava indicare il lavoro che uno svolgeva per comprendere quale fosse il suo universo politico e valoriale di riferimento. Oggi invece occorre scavare a fondo, la dimensione delle classi sociali è saltata, ora abbiamo la dimensione degli indebitati, dei precari, dei rancorosi, degli incazzati, dei depressi. E penso che gli italiani capiscano la depressione che anima queste proteste, per questo non si lamentano dei blocchi che devono subire.
Grillo, la Lega e Berlusconi cercano di intepretare le ragioni della protesta. Cosa ne pensa?
Non voglio entrare in una discussione politica. Ma è chiaro che i politici, i sindacati, i mass media sono delegittimati. C’è una crisi di rappresentanza e le figure di riferimento sono cambiate. La crisi dei partiti è evidente, c’è una diaspora sia dalle formazioni politiche che dalle associazioni sindacali tradizionali. Gli strumenti con i quali eravamo abituati a capire la realtà sono in parte inadeguati, il conflitto è molecolarizzato e non segue più la linea classica (disagio, organizzazione delle lamentele da parte delle associazioni, richiesta a Palazzo Chigi di cambiare la situazione). E la differenza con il passato è che un tempo la legge finanziaria dispensava aiuti e spese, mentre oggi la legge di stabilità definisce unicamente tagli. Il governo non riconosce questa rivolta, non sa nemmeno quale faccia abbia.
L’austerità ha causato proteste in molti Paesi. Il movimento dei Forconi può essere originato anche dalla enorme crisi di credibilità della classe politica italiana?
Di italiano vedo la crisi drammatica di un capitalismo di territorio. Un problema reale.
Dicembre 2013