16-18 settembre 1982. Ricordo del massacro di Sabra e Shatila.

In ricordo del massacro di Sabra e Shatila, con la straordinaria scrittura di Jean Genet

Tre giorni di stragi: 16-18 settembre 1982. Duemila profughi, in due campi vicino a Beirut, vengono massacrati da milizie cristiano-libanesi delegate al ‘lavoro sporco’ – come lo chiama Jean Genet – dall’esercito israeliano.

Israele ha invaso il Libano e assedia Beirut, comanda il generale Sharon, poi presidente dello Stato. Altre stime sui massacri di Sabra-Chatila parlano di 3500 vittime – donne, bambini, anziani. I carnefici – assistiti dall’esercito con la stella di David che circonda i campi con blindati e carri armati e osserva da vicino gli avvenimenti – entrano nell’area alle ore 18 del 16 settembre e terminano il genocidio allo scadere del terzo giorno. Loren Jenkins, il giornalista americano citato nel pezzo commemorativo di Robert Fisk, il 20 settembre 1982 scrive sul Washington Post: «La scena nel campo di Chatila, quando gli osservatori stranieri vi entrano il sabato mattina, è come un incubo. In un giardino, i corpi di due donne giacciono su delle macerie dalle quali spunta la testa di un bambino. Accanto ad esse il corpo senza testa di un bambino. Oltre l’angolo, in un’altra strada, due ragazze, forse di 10 o 12 anni, giacciono sul dorso, con la testa forata e le gambe lanciate lontano. Pochi metri più avanti, i corpi di otto uomini mitragliati contro una casa. Ogni viuzza sporca che attraversa gli edifici vuoti – dove i palestinesi hanno vissuto dalla fuga dalla Palestina, nel 1948, alla creazione dello Stato di Israele e conseguente pulizia etnica – racconta la propria storia di orrori. In una di esse sedici uomini sono sovrapposti uno sull’altro, mummificati in posizioni contorte e grottesche».


JEAN GENET – QUATTRO ORE A SHATILA 

 

 

(…)

Una piatta fotografia, uno schermo televisivo – né l’una né l’altro si possono attraversare. Da un muro all’altro della strada, rattrappiti o inarcati, i piedi di qua e il capo contro il muro opposto, i cadaveri gonfi e neri in cui continuamente inciampavo erano sempre di palestinesi e libanesi. Per me, come per tutta la popolazione sopravvissuta, girare per Shatila e Sabra era come giocare alla salta-cavallina. Basta un morto bambino a volte per bloccare una strada, sono strade così strette, quasi dei vicoli, e i morti talmente tanti! Mandano un odore che ai vecchi è familiare: a me non dava fastidio. Ma quante mosche! Se sollevavo la pezza, o il giornale arabo posato su una testa, le infastidivo. Inferocite dal gesto, mi venivano a sciami sul dorso della mano, in cerca di cibo (…).
La fotografia non coglie le mosche, né l’odore bianco e greve della morte; e neppure dice che per proseguire bisogna saltare da un cadavere all’altro.
Quando si guarda fisso un morto, succede uno strano fenomeno: la mancanza di vita in quel corpo equivale a una mancanza totale del corpo, o meglio, a un suo ritrarsi interrotto. Anche se ci avviciniamo, ci sembra che non lo toccheremo mai. Questo se stiamo a guardare. Ma basta un gesto rivolto al morto, chinarsi su di lui, cambiare di posto a un braccio o a un dito, ed eccolo ben presente, e quasi amico.
L’amore e la morte. Ne scrivi uno e l’altro subito accorre a completare la coppia. Ho dovuto andare a Shatila per cogliere l’oscenità dell’amore e l’oscenità della morte. In ambedue i casi, i corpi non hanno più niente da nascondere: posizioni, contorcimenti, gesti, segni, anche i silenzi appartengono all’uno e all’altro mondo. Il corpo di un uomo di trenta – trentacinque anni era steso sul ventre.

(…)

«Potete aiutarmi a voltargli la testa?». 
«No».

«L’hanno trascinato per le strade con questa corda?».
«Non lo so, monsieur».

«Chi l’ha legato?».
«Non lo so, monsieur».
«Quelli del comandante Haddad?».
«Non lo so».
«Gli israeliani?».
«Non lo so».
« I kataéb?».
«Non lo so».
«Lo conoscevi?».
«Sì».
«L’hai visto morire?».
«Sì».
«Chi l’ha ucciso?».
«Non lo so».

Si è allontanato dal morto e da me piuttosto in fretta. Ormai lontano, si è voltato a guardarmi, poi è scomparso in un vicolo laterale.
E adesso che vicolo prendere? Ero strattonato da uomini sui cinquanta, da giovani di venti, da due vecchie arabe, mi sembrava di stare al centro di una rosa dei venti, dove ognuno dei raggi racchiudeva centinaia di morti.
L’annoto qui, non so bene perché a questo punto del racconto: «I francesi sono abituati a usare questa scialba espressione: “uno sporco lavoro”. Bene, come l’esercito israeliano ha ordinato questo “sporco lavoro” ai kataèb, o agli uomini di Haddad, i laburisti hanno fatto terminare lo “sporco lavoro” al Likud, Begin, Sharon, Shamir». Ho ripetuto quanto mi ha detto R., giornalista palestinese, ancora a Beirut, domenica 19 settembre.
Tra loro e accanto a loro, a tutte le vittime torturate, la mia mente non riesce a liberarsi da questa “visione invisibile”: com’era il torturatore? Chi era? Lo vedo e non lo vedo. Ce l’ho sotto gli occhi, per me non avrà mai altro aspetto di quello tratteggiato da atteggiamenti, posizioni, gesti grotteschi dei morti tormentati nel sole da sciami di mosche.
Visto che sono partiti tanto in fretta (gli italiani, arrivati per nave con due giorni di ritardo, poi se la sono battuta su aerei Hercules!), i marine americani, i para francesi, i bersaglieri italiani che formavano la forza di dissuasione in Libano, un giorno o trentasei ore prima della partenza ufficiale, come se si mettessero in salvo, e alla vigilia dell’assassinio di Bechir Gemayel, hanno davvero torto i palestinesi a chiedersi se americani, francesi e italiani non fossero stati avvertiti che bisognava sloggiare in tutta fretta per non sembrare coinvolti nell’esplosione della sede dei kataèb?

(…)

Tre giovani mi hanno trascinato in un vicolo.
«Entrate, monsieur, noi aspettiamo fuori».
Il primo locale era quanto restava di una casa a due piani. Locale molto tranquillo, quasi accogliente, un assaggio di benessere, forse un benessere pieno, era stato messo su con dei rottami, con quanto restava della stoffa di un tramezzo crollato, con ciò che ho creduto dapprima essere tre poltrone, ma in realtà tre sedili di un’auto (forse una Mercedes allo sfascio), un divano coi cuscini ricavati da una stoffa a fiori di colori vivaci e disegno stilizzato, la radio silenziosa, due candelabri spenti. Locale molto tranquillo, malgrado il tappeto di bossoli… Una porta sbatteva, come per una corrente d’aria. Procedevo sui bossoli, e ho spinto la porta che si apriva nell’altra direzione ma ho dovuto fare forza: mi impediva il passaggio il tacco di uno stivale, appartenente a un cadavere buttato di schiena, vicino ad altri due cadaveri di uomini a pancia in giù, che giacevano anch’essi su un identico tappeto di bossoli di rame. Su questi bossoli ho rischiato spesso di cadere.
In fondo al locale c’era una porta aperta, senza serratura, senza catenaccio. Scavalcavo i morti come si varca un abisso. Dentro la stanza, ammucchiati su un unico letto, quattro cadaveri maschili; uno sopra l’altro, quasi che ognuno avesse voluto così proteggere chi gli stava sotto, o come se fossero stati presi da una foia erotica in decomposizione.

(…)

All’uscita, mi ha preso un attacco di improvvisa e leggera follia, e ne ho quasi riso. Mi sono detto che non sarebbero state mai abbastanza le assi e i falegnami per le bare. Ma poi, perché delle bare? Tutti gli uomini e le donne che erano morti erano musulmani, e i musulmani da morti vengono avvolti in un lenzuolo. Quanti metri occorrevano per poter seppellire tanti morti? E quante preghiere? In quel luogo – me ne sono accorto allora – non erano più scandite le preghiere.

(…)

Qui, tra le rovine di Shatila, non c’è più niente. Qualche vecchia, muta, che presto scompare dietro una porta su cui ricade una candida tenda. Di fedayn giovanissimi ne incontrerò di nuovo qualcuno a Damasco.
La scelta di una comunità privilegiata, al di là delle origini, quando si appartiene a quel popolo per nascita, è una scelta che si fa per un’adesione non ragionata, non che la giustizia non vi partecipi, ma questa giustizia e per intero la difesa di tale comunità si fanno in virtù di un richiamo sentimentale, forse addirittura sensibile, sensuale; io sono francese, ma completamente, e pregiudizialmente, difendo i palestinesi. Il diritto è dalla loro parte, perché io li amo. Ma li amerei se l’ingiustizia non li avesse resi un popolo nomade?
Le case di Beirut sono quasi tutte lesionate, nella zona che si chiama ancora Beirut ovest. Crollano in vari modi: come un millefoglie serrato tra le dita di un gigantesco King-Kong, indifferente e vorace, oppure gli ultimi tre o quattro piani cedono deliziosamente, secondo un plissé molto elegante, una sorta di drappeggio della casa alla libanese. Se c’è una facciata intatta, fate un giro intorno alla casa, sono state colpite le altre facciate. Se sui quattro lati non ci sono crepe, la bomba sganciata dall’aereo è caduta al centro, e dove c’erano le scale e l’ascensore adesso c’è un buco profondo.
A Beirut ovest, dopo l’arrivo degli israeliani, S. mi dice: «Era calata la notte, dovevano essere le sette di sera. Di colpo, un gran rumore di ferraglie, di ferraglie, di ferraglie. Tutti quanti, mia sorella, mio cognato e io, corriamo al balcone. Notte molto nera. E di tanto in tanto, come dei lampi a meno di cento metri. Sai che quasi di fronte a noi c’è una specie di postazione israeliana: quattro carri, una casa occupata da alcuni soldati e ufficiali, e delle sentinelle. La notte. E il rumore di ferraglie che s’avvicina. I lampi: alcune torce per illuminare. E quaranta o cinquanta ragazzini di circa dodici o tredici anni che battevano ritmicamente su dei barattoli di ferro, con delle pietre o dei martelli o qualcos’altro».

(…)

La popolazione anziana dei campi è miserabile, forse lo era anche in Palestina ma la nostalgia qui ha effetti magici. Questa gente rischia di restare prigioniera dell’incanto malefico dei campi. Non è affatto certo che questi palestinesi abbandonino i campi senza rimpianto. In questo senso l’indigenza estrema è passatista. Chi l’abbia incontrata, insieme all’amarezza avrà incontrato una gioia sublime, solitaria, ineffabile. I campi giordani, inerpicati su declivi pietrosi, sono nudi, ma ai loro confini c’è una nudità ancora più desolata: baracche, tende piene di buchi, dove abitavano famiglie splendidamente orgogliose. Significa non sapere niente del cuore umano se non si arriva a capire come gli uomini possano attaccarsi ed essere orgogliosi di miserie tangibili, e questo orgoglio è possibile perché la miseria di superficie ha per contrappeso una gloria sotterranea. La solitudine dei morti, nel campo di Shatila, era ancora più tangibile perché avevano gesti e pose di cui non erano responsabili. Morti non importa come. Morti abbandonati. Tuttavia, nel campo, intorno a noi, ogni affetto, ogni tenerezza, ogni amore, correvano in cerca dei palestinesi che non vi avrebbero più potuto corrispondere.

(…)

I massacri non possono essere avvenuti nel silenzio e al buio. Al chiarore dei razzi luminosi israeliani, ogni orecchio israeliano, da giovedì sera, ascoltava Shatila. Che festa, che baldoria c’è stata là dove la morte sembrava prendere parte all’allegria dei soldati ubriachi di vino, di odio, e indubbiamente ubriachi della gioia di piacere all’esercito israeliano che ascoltava, guardava, incoraggiava, sgridava. Non ho visto l’esercito israeliano ascoltare e vedere. Ho visto ciò che ha fatto.

(…)

Restano aperte molte domande:
Se gli israeliani non hanno fatto nient’altro che illuminare il campo, restare in ascolto, udire i colpi sparati da tutte quelle munizioni di cui ho calpestato i bossoli (decine di migliaia), chi sparava in realtà? Chi, uccidendo, rischiava la pelle? Dei falangisti? Degli uomini di Haddad? Chi? E quanti?
Dove sono finite le armi che hanno fatto tutti quei morti? E dove le armi di chi si è difeso? Nella zona del campo che ho visitato, non ho visto che due armi anticarro non usate.
Come sono entrati gli assassini nei campi? Gli israeliani comandavano tutte le entrate al campo di Shatila? In ogni caso, da giovedì erano all’ospedale di Acca, di fronte a un ingresso del campo.
I giornali hanno scritto che gli israeliani sono entrati nel campo di Shatila subito dopo avere saputo dei massacri, e che li hanno fatti immediatamente cessare, dunque il sabato. Ma che ne hanno fatto dei massacratori, dove sono andati a finire costoro?

(…)

Da Parigi, soprattutto se si ignora la topografia dei campi, si può dubitare davvero di tutto!: Si può permettere a Israele di affermare che i giornalisti di Gerusalemme sono stati i primi a dare notizia del massacro. Come lo hanno detto verso i paesi arabi e in lingua araba? Come in francese e in inglese? E quando precisamente? Quando si pensa alle precauzioni di cui ci si circonda in Occidente dopo aver constatato una morte sospetta, le impronte, l’impatto dei proiettili, le autopsie e controperizie! A Beirut, appena saputo del massacro, l’esercito libanese prendeva ufficialmente in consegna i campi e immediatamente li ripuliva, dalle macerie e dai cadaveri. Chi ha ordinato questa fretta? Dopo che un’affermazione aveva fatto tuttavia il giro del mondo: cristiani e musulmani si sono ammazzati tra loro, e dopo che le macchine da presa avevano registrato la ferocia del massacro.
L’ospedale di Acca, occupato dagli israeliani, di fronte a un ingresso di Shatila, non è a duecento metri dal campo, ma a quaranta. Non hanno visto niente, non hanno sentito niente, non si sono accorti di niente?
È proprio quanto Begin dichiara alla Knesset: «Dei non-ebrei hanno massacrato dei non-ebrei. Dove c’entriamo noi?».

(…)

A Shatila, molti sono morti e il mio affetto, il mio amore per i loro cadaveri putrescenti, era grande anche perché io li avevo conosciuti. Neri e gonfi, putrefatti dal sole e dalla morte, erano ancora fedayn.
Verso le due del pomeriggio di domenica, tre soldati dell’esercito libanese, col fucile puntato, mi hanno condotto a una jeep dove sonnecchiava un ufficiale. Ho chiesto:
«Parlate francese?».
«English».
Era secca la voce, forse perché l’avevo destato di soprassalto. Ha preso in mano il mio passaporto. Poi, in francese:
«Venite di là?» (con la mano indicava Shatila).
«Sì».
«E avete visto?».
«Sì».
«Lo scriverete?».
«Sì».
Mi ha reso il passaporto. Mi ha fatto segno di andare. I tre fucili si sono abbassati. Avevo passato quattro ore a Shatila. Ne avevo per ricordare circa quaranta cadaveri. Tutti – e dico: tutti – erano stati torturati, probabilmente da ubriachi che cantavano, ridevano, tra l’odore di polvere e già di carogna. Indubbiamente ero solo, intendo dire il solo europeo (con poche vecchie palestinesi, ancora aggrappate a un cencio bianco strappato; con pochi giovani fedayn disarmati) ma se cinque o sei esseri umani non fossero stati là, se avessi scoperto io quella città abbattuta, i palestinesi atterrati, neri e gonfi, io sarei impazzito. Dove ero stato? Quella città in briciole e a terra che ho visto o creduto di vedere, percorsa, sollevata, trasportata dall’odore possente della morte, c’era stato davvero tutto ciò?
Non avevo esplorato, e male, che un ventesimo di Sabra e Shatila, non ero stato a Bir Hassan, né a Burj el Barajné.

(…)

Tornando da Beirut, all’aeroporto di Damasco, ho incrociato dei giovani fedayn, sfuggiti all’inferno israeliano. Avevano sedici, diciassette anni: ridevano, erano come quelli di Ajlun. Come loro moriranno. La lotta per una terra può riempire una vita intensa, e breve. È la scelta – ci si ricorda – di Achille nell’Iliade.

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