Sandro Medici
Potrà sembrare eccessivo e perfino un po’ apocalittico, ma la sensazione è che la sinistra sia ormai in via d’estinzione. O meglio, sembra non esserci più un soggetto politico che aspiri e intenda svolgere una funzione alternativa agli assetti dominanti. Quel che oggi viene definita «sinistra» è un assemblaggio di forze politiche e sociali che costituisce una delle versioni, sempre meno distinguibile, di quel format politico che l’economia di mercato ritiene pur sempre necessario.
La sinistra non più motore di cambiamento strutturale ma variante funzionale allo sviluppo del capitale finanziario: preferibilmente in alternanza alla destra, ma, se del caso, come accade oggi, anche congiuntamente. È stata una lunga marcia, quella che ha portato la sinistra italiana a rinunciare a se stessa e ridursi a un surrogato sbiadito e inane. Si dirà che così è per le tante ragioni storiche che ci hanno attraversato. Per le ripetute sconfitte che abbiamo subìto, per i limiti, gli errori e anche per quel vortice di vanità soggettive, inconfessabili invidie, ripicche, malintesi, croniche e grottesche litigiosità che hanno consumato gruppi dirigenti e corpi militanti. Ed è inutile girarci intorno tra reticenze e nostalgie, un’intera cultura politica appare completamente azzerata.
Né potrà essere un congresso, singolo, multiplo o accoppiato che sia, a porte aperte o finestre chiuse, se prima o dopo le primarie, a riaccendere scintille o rigenerare coscienze. Né, d’altra parte, può apparire convincente affidarsi ad attempate liturgie o pratiche obsolete, a rassicuranti rispecchiamenti. La degenerazione oligarchica e faccendiera e il minoritarismo compiaciuto e consolatorio, insieme alle loro innumerevoli sfumature, ci restituiscono per intero l’entità della crisi della sinistra. Né un politicismo estenuato, né un volontarismo velleitario. Se questa crisi è davvero così profonda e disperante, sarebbe consigliabile evitare di continuare a considerare rancore e risentimento tutto quel che prova a muoversi fuori dal recinto della rassegnata accettazione degli attuali assetti. Così come ci si dovrebbe astenere dal considerare ruffiani e traditori tutti quelli che, più o meno invano, tentano di dare un senso al loro realismo ripiegato. E non solo per rispetto reciproco o per quel minimo di eleganza che è sempre bene concedersi. Ma per quella consapevolezza politica che dovrebbe spingere tutti a misurare i propri limiti e a non attribuire ad altri le proprie mancanze e frustrazioni. Non si tratta pertanto di rivolgere appelli alla tolleranza o richiamarsi a un’improbabile fraternità o, men che meno, invocare una stucchevole unità. Semmai, di rendersi conto di quanto scarsamente credibili appaiano le nostre bandiere e noi stessi che non riusciamo a sventolarle, di quanto inadeguate e caduche siano le ragioni di ciascuno, di fronte alla profondità di una crisi che poco o nulla da quelle ragioni viene intaccata. Mentre questa nostra crisi si consuma e ci consuma, trovano spazio ed energia quei poderosi processi restaurativi che stanno definitivamente allineando il nostro paese alle esigenze della governabilità panfinanziaria.
Come del resto veniva recentemente raccomandato dalla potente banca d’affari JpMorgan. In uno spazientito rapporto si ricordava carinamente che per il potere finanziario la democrazia, i diritti e le libertà sono variabili dipendenti: non dunque principi universali e storicamente acquisiti, ma inconvenienti che fanno attrito, se non proprio impedimento, ai processi accumulativi del capitale speculativo. E non sarà certo un caso che, in sintonia con tali indicazioni, si stiano allestendo le prove generali per cambiare la Costituzione del ’48 e così promuovere un assetto istituzionale presidenzialista, sebbene semi o post o tardo (fate voi). Concentrare cioè il potere politico negli organi esecutivi, indebolire la dialettica parlamentare, limitare le prerogative della magistratura, comprimere il campo dei diritti sociali e sindacali, neutralizzare il dissenso delle comunità locali, contrastare i processi di democrazia diretta dei movimenti. È questo il passaggio storico che si è in procinto di promuovere: e che tragicamente vede tra i più attivi sostenitori nientemeno che gli epigoni dei partiti costituenti, attualmente accampati al Quirinale e a Palazzo Chigi. Se realizzato, si configurerebbe come un’eutanasia del sistema repubblicano post-resistenziale, che è poi forse l’ultimo retaggio culturale unificante della democrazia italiana. Modificherebbe cioè in senso autoritario l’assetto fondativo del nostro paese. Insomma, un irrimediabile strappo politico-istituzionale, con il conseguente restringimento delle garanzie democratiche e delle tutele sociali.
Siamo insomma al tratto conclusivo della mutazione italiana, una parabola restauratrice il cui percorso ha prima scompaginato, poi neutralizzato, infine sussunto il pensiero e l’azione della sinistra storica. Se non interverranno rotture clamorose, allo stato improbabili (anche se non impossibili), gli assetti politici generali resteranno prigionieri della gabbia delle compatibilità (e delle larghe intese). Lasciando senza riferimenti e senza sbocchi il montante malessere sociale, quell’intenso disagio popolare che oscilla tra collera e afflizione, sempre più smarrito e inerme. E che comunque si manifesta come può: in larga prevalenza, con un progressivo abbandono, oppure, più limitatamente, in un ostinato impegno di opposizione. Non riuscendo, entrambe le scelte, ad aprire prospettive di cambiamento e neanche a incidere con sufficiente efficacia. Qual è allora l’algoritmo che può offrire a questa domanda politica una possibile via d’uscita? La risposta è «nel vento», avrebbe detto tempo fa Bob Dylan: e cioè in una maturazione di processi evidentemente ancora imperfetti e incompiuti, in un’ulteriore crescita di consapevolezza collettiva, in un’attesa forse struggente e di cui non è certo alcun esito. Si può nel frattempo continuare ad accontentarsi di spigolare qualcosina in parlamento o nelle amministrazioni locali, con il fiato sempre più corto e lo stomaco tormentato. Si può oppure insistere a ricercare la sinistra perduta, con quel vigore indignato delle tante intelligenze combattenti che inascoltate invocano se non ora quando. È che, malgrado tutto, in questo disastrato paese persiste una tensione ideale densa e appassionata, anche cospicua e diffusa, ma pur sempre rarefatta, destrutturata. Dalle valli piemontesi agli altopiani siciliani, tra mille scintille e focolai, si dispiega una considerevole movimentazione sociale che preme e sussulta, urta, strattona e spinge, e poi ripiega, si disperde, sfiorisce. Per riaccendersi di nuovo e di nuovo sopirsi. Un poderoso impulso sociale, uno slancio desiderante che tuttavia stentano a esprimersi e comporsi in una soggettività che sappia incidere e cambiare l’esistente stato delle cose. È difficile prevedere se tutte queste molecole si assembleranno per trasformarsi in un nuovo composto politico, si confedereranno in una qualche inedita morfologia, si decideranno finalmente ad auto-rappresentarsi. Segnalano tuttavia una speranza concreta. Forse l’unica disponibile, per riattivare una dinamica democratica larga e convincente e (chissà) a fondare una sinistra nuova, una sinistra purchessia, una sinistra che non sa di esserlo. E un’occasione per verificare se sia o meno possibile alimentare tale aspirazione è quella offerta dalla campagna in difesa della Costituzione, che vedrà una prima tappa in un’assemblea l’8 settembre a Roma per poi proseguire in una successiva manifestazione nazionale in ottobre. A nessuno sfugge la centralità di una battaglia che è insieme politica, sociale e culturale, e che può contrastare seriamente i processi degenerativi che si vanno pericolosamente sviluppando. E a nessuno sfugge altresì che potrebbe diventare l’ambito in cui in molti, moltissimi si possano riconoscere e possano partecipare, liberamente e salvaguardando la propria autonomia, per rivendicare nuovi orizzonti giuridici sulla democrazia, sui diritti, sul lavoro, sui beni comuni, ecc. Ebbene, le realtà territoriali, i movimenti, le associazioni, i sindacati, l’attivismo sociale e culturale possono nutrire e animare questa campagna, e possono farlo come solo loro sanno fare, capillarmente e appassionatamente: com’è successo con i referendum sull’acqua pubblica e come succede costantemente nelle vertenze e nelle mobilitazioni che si accendono in ogni dove. Mi sento anche personalmente coinvolto in questa battaglia, a cui dunque aderisco. E invito inoltre a parteciparvi anche le comunità politiche che hanno promosso le liste di cittadinanza con cui ho condiviso la recente battaglia elettorale, esperienze di nuova formazione che nel frattempo si stanno aggregando in un coordinamento nazionale. È del resto attraverso la condivisione, l’incontro, la relazione che è possibile imbastire un nuovo tessuto politico. Creando cioè ambiti collettivi in cui ognuno sia messo in condizione di contribuire e dunque di rendersi protagonista. Cercando per un verso di contrastare politiche scellerate, e per l’altro di coltivare un nuovo modello di prassi collettiva. Si tratta insomma di agire in quelle contraddizioni generate dalle scelte di governi sempre più compiacenti e asserviti, ma tutti insieme, tutte insieme, in una reciproca disponibilità all’iniziativa comune. È qui lo snodo da allentare, il grumo da aggirare, il dubbio da sciogliere, l’ostacolo da superare. Nel nostro paese sono migliaia le turbolenze sociali che precipitano in scompensi, attriti, conflitti, gli episodi di dissenso e ostilità che si accendono per difendersi da politiche sempre più aggressive e deprivanti. Ma tutta questa potenzialità stenta ed è perfino riluttante a coagularsi per dar vita a una nuova grammatica politica. Eppure è quest’insieme di insorgenze popolari che in Italia costituisce oggi l’opposizione, non solo sociale e culturale ma direttamente anche politica. Annidato nelle città e nei territori, si configura come un fronte mobile e segmentato, anzi puntiforme, e perciò stesso oscillante tra un andamento a bassa intensità e picchi di furente conflittualità. Ma anche ondivago nel suo rapporto con il potere politico: incline in alcune circostanze a tutelare le proprie convenienze, del tutto indisponibile al confronto, in altre.
Parassitismo o refrattarietà. La pervasività cellulare è la sua forza, ma ne rappresenta anche la debolezza. Disarticolazione, specificità, intermittenza, frammentarietà: un costante rischio di dispersione, se non proprio di inefficacia. Ma è del resto così che si esprime attualmente la soggettività politica. E non solo in Italia: dalla Turchia al Brasile, dagli indignados all’arcipelago occupy . È l’esito della lunga e tormentata crisi del partito novecentesco, dell’esaurirsi del suo ruolo di corpo intermedio tra la società e le istituzioni, a lungo esercitato e oggi frantumato e non più credibile. Una crisi che tuttavia non solo si prolunga generando contraccolpi burocratici e degenerazioni etiche, ma non riesce nemmeno a depositarsi in un qualche precipitato sostitutivo. È un’agonia, questa dei partiti, che, in mancanza di forme organizzate, modelli alternativi, sfigura e decompone la funzione politica, fino a spolparne ogni ragione e così renderla accessoria, superflua. Come se il morto divorasse il vivo. Ed è esattamente qui, in questo transito tra il non più e il non ancora, in questa dinamica tra conflitto permanente e rappresentanza manchevole, tra lotta sociale e bisogno politico, che si resta impantanati in una terra di nessuno senza echi né riflessi. E se il non più stiamo imparando a escluderlo, il non ancora dobbiamo faticosamente cercarlo.
il manifesto, 31/8/2013