Qui di seguito un articolo apparso qualche giorno fa su il manifesto, una proposta relativa ad un reddito di base incondizionato. Proposta capace di mettere in discussione i parametri delle politiche economiche neoliberiste e moderate e aprire una discussione sulle prioprità e le necessità del tempo presente; per dare ossigeno all’economia italiana e aprire prospettive di riscatto per precari, flessibili e senza lavoro. Un’ipotesi che potrebbe essere fatta propria dai movimenti, dai soggetti sociali autorganizzati e dal sindacato che ha rinunciato alla concertazione.
Una proposta che può aprire un confronto importante, capace di rimettere in discussione la cultura del lavoro, verso un percorso di liberazione del lavoro e dal lavoro.
Per comprendere il percorso economico che porta a questa proposta può essere utile leggere un libretto appena uscito di Andrea Fumagalli, Lavoro male comune. Bruno Mondadori, Euro 15.00
Un reddito di base incondizionato
Andrea Fumagalli, Carlo Vercellone
È una soluzione da preferire al reddito di cittadinanza, perché accresce la libertà di scelta della forza lavoro e svincola dalla protezione sociale legata alla famiglia o alla stabilità del posto. E i precari avrebbero finalmente accesso alla protezione sociale
Sia sul sito di Sbilanciamoci che sul manifesto sono apparsi alcuni articoli critici sul reddito di cittadinanza (per esempio Pennacchi e Lunghini). Condividiamo con essi un punto: in Italia c’è una tendenza preoccupante a impiegare in modo del tutto scorretto il concetto di reddito di cittadinanza, intendendo erroneamente ora l’introduzione di sussidi alla disoccupazione, ora di un reddito minimo d’inserimento, senza ragionare al contempo sulla necessità di introdurre un minimo salariale. A differenza del sussidio (che riguarda solo i disoccupati e che non risolve il problema di coloro che pur lavorando non escono dalla povertà) e del reddito minimo di inserimento (che assicura un dato livello di reddito condizionato all’accettazione di qualunque offerta di lavoro) il reddito di cittadinanza è erogato a tutti indipendentemente dalle condizioni lavorative o salariali.
All’espressione reddito di cittadinanza preferiamo quella di reddito di base incondizionato, elaborata nel quadro dell’analisi del capitalismo cognitivo. La proposta di reddito di base incondizionato poggia su due pilastri fondamentali.
1. Il primo riguarda il suo ruolo in relazione alla condizione della forza lavoro in un’economia capitalista. La disoccupazione e la precarietà sono qui intese come l’esito della posizione subalterna del salariato all’interno di un’economia monetaria di produzione: il lavoro salariato è condizione d’accesso alla moneta, cioè a un reddito che dipende dalle decisioni dei capitalisti concernente la quantità di lavoro impiegabile con profitto. Il reddito di base incondizionato accresce la libertà effettiva di scelta della forza lavoro. Inoltre, il suo carattere incondizionato e individuale aumenterebbe il grado di autonomia rispetto ai dispositivi tradizionali di protezione sociale ancora incentrati sulla famiglia patriarcale e sulla stabilità del posto di lavoro. Da qui due corollari essenziali: l’importo monetario del reddito di base incondizionato deve essere sufficientemente elevato (almeno la metà del salario mediano) per permettere di rifiutare delle condizioni di lavoro ritenute come degradanti o inaccettabili. Il reddito di base incondizionato permetterebbe anche un’effettiva diminuzione del tempo di lavoro sull’insieme del tempo di vita, in un contesto in cui una sua riduzione uniforme è difficile da applicare a una parte crescente della forza-lavoro, in particolare nelle attività cognitive. Esso rafforzerebbe la logica di de-mercificazione dell’economia del sistema di protezione sociale che si propone di completare, in particolare a vantaggio dei precari, oggi in gran parte esclusi da ogni ammortizzatore sociale.
2. Il reddito di base incondizionato è un reddito primario, cioè un salario sociale legato ad una contribuzione produttiva oggi non remunerata e non riconosciuta. La crisi attuale delle forme di occupazione tipiche del fordismo non significa una crisi del lavoro come fonte principale della produzione di valore e di ricchezza. Al contrario. Il capitalismo cognitivo non è solo un’economia intensiva nell’uso del sapere, ma costituisce al tempo stesso un’economia intensiva in lavoro, benché questa dimensione nuova del lavoro sfugga spesso a una misurazione ufficiale, sia per quanto riguarda il tempo effettivo di lavoro che la tipologia delle attività che non possono essere del tutto assimilate alle forme canoniche del lavoro salariato.
Questa trasformazione trova la sua origine principale nel modo in cui lo sviluppo di un’intellettualità diffusa e la dimensione cognitiva del lavoro hanno condotto all’affermazione di un nuovo primato dei saperi vivi, mobilizzati dal lavoro, rispetto ai saperi incorporati nel capitale fisso e nell’organizzazione manageriale delle imprese. Da questo deriva anche la crisi del regime temporale che all’epoca fordista opponeva rigidamente il tempo di lavoro diretto, effettuato durante l’orario ufficiale di lavoro, e considerato come il solo tempo produttivo, e gli altri tempi sociali dedicati alla riproduzione della forza lavoro, considerati come improduttivi.
Due tendenze mostrano la portata di questa trasformazione:
1. la parte del capitale chiamato intangibile (educazione, formazione, salute) e incorporato essenzialmente negli uomini, supera la parte del capitale materiale nello stock di capitale, e rappresenta il fattore principale della crescita. Questo fatto stilizzato significa che le condizioni della riproduzione della forza lavoro sono diventate direttamente produttive e che la fonte della ricchezza delle nazioni si trova sempre più a monte del sistema delle imprese. Esso indica inoltre il modo in cui i settori motori del capitalismo cognitivo corrispondono sempre più ai servizi collettivi assicurati storicamente dal welfare. Si tratta di attività dove la dimensione cognitiva del lavoro è dominante e che potrebbero essere il supporto di un modello di sviluppo alternativo fondato sulle produzioni dell’uomo attraverso l’uomo. Si comprende alla luce di questo la pressione straordinaria esercitata dal capitale per privatizzare o in ogni caso sottomettere alla sua razionalità i servizi collettivi del Welfare introducendo, in linea con il New Public Management, la logica della concorrenza e del risultato quantificato, come base della logica del valore.
2. Il passaggio, in numerose attività produttive, da una divisione taylorista ad una divisione cognitiva del lavoro fondata sulla creatività e la capacità d’apprendimento dei lavoratori. In questo quadro, il tempo di lavoro svolto durante l’orario ufficiale di lavoro è soltanto una frazione del tempo sociale di produzione. Per sua stessa natura, il lavoro cognitivo si presenta infatti come la combinazione di un’attività di riflessione, di comunicazione, di scambio di conoscenze che si svolge tanto all’interno quanto al di fuori delle imprese e dell’orario contrattuale di lavoro. Di conseguenza, i confini tradizionali tra lavoro e non-lavoro, si attenuano, e ciò avviene con una dinamica contraddittoria. Il tempo libero non si riduce più alla sola funzione di riproduzione del potenziale energetico della forza lavoro. Poggia su attività nelle quali ogni individuo trasporta il suo sapere da un tempo sociale all’altro secondo una dinamica che – come nel modello del software libero – è oggi il vettore principale della produzione di conoscenza e d’innovazione. Ne risulta una tensione crescente tra la tendenza all’autonomia del lavoro e il tentativo del capitale di assoggettare l’insieme dei tempi sociali alla logica eteronoma della propria valorizzazione.
Tale tensione contribuisce a spiegare la stessa destabilizzazione dello scambio capitale-lavoro salariato. Nel capitalismo industriale, il salario era la contropartita dell’acquisto da parte del capitale di una precisa frazione di tempo umano messa a disposizione dell’impresa. Nella fabbrica fordista, il tempo effettivo di lavoro, la produttività, il valore e il volume della produzione sembravano perfettamente predeterminati in modo scientifico. Il solo vero rischio per il capitale era l’insorgenza antagonista dell’operaio-massa.
Tutto cambia quando il lavoro, diventando sempre più cognitivo, non può più essere prescritto e ridotto a un semplice dispendio di energia effettuato in un tempo determinato: non solo la crisi della cosiddetta organizzazione scientifica del lavoro rende nuovamente il capitale dipendente dai saperi dei lavoratori, ma quest’ultimo deve ottenere un’implicazione attiva dell’insieme dei saperi e dei tempi di vita. La prescrizione della soggettività, l’obbligo al risultato, la costrizione legata alla precarietà sono le principali vie trovate dal capitale per tentare di rispondere a questo problema. Le diverse forme di precarizzazione del lavoro sono, infatti, anche e soprattutto uno strumento per il capitale per imporre e beneficiare gratuitamente di questa subordinazione totale, senza riconoscere e senza pagare il salario corrispondente a questo tempo non integrato e non misurabile nel contratto di lavoro. Di fronte a queste tendenze, il reddito di base incondizionato pemetterebbe la ricomposizione dell’insieme delle componenti della forza-lavoro, modificando a partire dalla società anche i rapporti di forza all’interno delle imprese.
In definitiva, il reddito di base incondizionato si presenta al tempo stesso come un reddito primario per gli individui e un investimento collettivo della società nel sapere, incrementando le economie di apprendimento e di rete alla base della produttività sociale. La sua instaurazione consentirebbe, congiuntamente alla riappropriazione democratica dei servizi collettivi del welfare, la transizione verso un modello di sviluppo fondato sul primato del non mercantile e di forme di cooperazione alternative tanto al pubblico quanto al mercato nei loro principi di organizzazione.
il manifesto, 6/8/13