I nove comandamenti del garantismo, di Giuseppe Di Lello

Mentre dai palchi e dagli schermi della campagna elettorale i candidati gridano, più o meno forte, ciascuno la propria legittimità morale e la volontà di difendere la legalità, diventa difficile provare a ricordare il valore politico del garantismo.

Noi proviamo a farlo, perché ci sembra urgente e indispensabile, lo facciamo riportando un commento del magistrato Di Lello all’intervento svolto da Luigi Ferrajoli al recente congresso di Magistratura Democratica.

Vorremmo condividerlo con tutti coloro che pensano che l’altro mondo possibile passi attraverso l’allargamento dei diritti e il rispetto delle persone, oltre le chiacchiere spesso vuote, della campagna elettorale.

Ma vorremmo condividerlo anche con coloro che alle chiacchiere si sono adeguati per “opportunità…” e che dopo le elezioni abbiano voglia di avviare un percorso diverso…

marco sansoè


Sappiamo quanto il populismo politico sia una minaccia per la democrazia rappresentativa. Ma ancor di più lo è la miscela di populismo politico e giudiziario

Giuseppe Di Lello

Il recente congresso nazionale di Magistratura democratica ha attraversato fortunosamente la fase finale della campagna elettorale e, proprio per alcune comuni tematiche legate ai conflitti tra politica e giustizia e all’ingresso dei magistrati nella competizione elettorale, ha avuto grande risonanza mediatica. Nello specifico, si è dato anche un buon risalto all’intervento di Luigi Ferrajoli che ha riproposto il tema del garantismo “spiegato” con esempi concreti tratti da vicende che quelle tematiche suggerivano. Per i poco informati bisogna ricordare che Ferrajoli, Vincenzo Accattatis e Salvatore Senese, al congresso del lontano 1971 con la relazione “Per una strategia politica di Magistratura democratica” dettarono la linea di sinistra per un uso alternativo del diritto, un classico di teoria e prassi dalla quale gran parte della corrente non si è mai discostata, anche perché altro non propugnava se non il rispetto della Costituzione e dei suoi principi emancipatori, anche da parte dei magistrati.

Dell’intervento di Ferrajoli, che meriterebbe di essere pubblicato nella sua interezza se non confliggesse con i limitati spazi di un quotidiano, va comunque data una sintesi più ampia dato che attualizza la necessità di una riflessione sul garantismo nella fase storica attuale in cui la giurisdizione sembra avere troppe certezze sul suo ruolo salvifico e poche regole che la orientino nei difficili rapporti con la politica e con i cittadini.

A fronte di una crescente espansione della giurisdizione, ben al di là delle classiche funzioni ad essa assegnate dallo stato liberale, per ritrovare il suo ruolo di garanzia e autonomia e non invadere spazi altrui, che non le competono, la magistratura dovrebbe legittimarsi attenendosi ad alcune massime deontologiche (Ferrajoli ne suggerisce nove) e sintetizzarle non è difficile, posto che i titoli delle stesse ne evidenziano il significato e la sostanza.

1) La consapevolezza del carattere “terribile” e “odioso” del potere giudiziario. Un potere che decide della libertà delle persone ed è in grado di rovinare loro la vita e che solo le garanzie possono limitare: un potere, perciò, tanto più legittimo quanto più è limitato dalle garanzie.

2) La consapevolezza del carattere relativo e incerto della verità processuale e perciò di un margine irriducibile di illegittimità dell’esercizio della giurisdizione. La verità processuale è sempre relativa e approssimativa, opinabile in diritto e probabilistica in fatto e quindi anche la legittimazione del potere giudiziario è sempre, a sua volta, relativa e approssimativa. Soprattutto in materia penale bisogna seguire la regola che porta all’accertamento della verità giuridica: il rigoroso divieto, in omaggio al principio di stretta legalità e tassatività, dell’analogia in malam partem e dell’interpretazione estensiva. Il giudice non può, non diciamo inventare figure di reato ma neppure estendere a fenomeni vagamene analoghi o connessi le fattispecie previste dalla legge. Una tale interpretazione estensiva Ferrajoli la ritrova nel processo sulla trattativa Stato/mafia in cui, non essendoci il reato di trattativa, è difficile capire come si possa accomunare nel reato di minaccia a corpo politico sia gli autori della minaccia, sia quanti ne furono i destinatari o tramiti o le vittime designate. Ovviamente quella trattativa fu un fatto gravissimo di deviazione politica, ma si tratta pur sempre di responsabilità politica e la separazione dei poteri va difesa non solo dalle indebite interferenze della politica nell’attività giudiziaria, ma anche dalle indebite interferenze della giurisdizione nella sfera di competenza della politica.

3) Il valore del dubbio e la consapevolezza della permanente possibilità dell’errore in fatto e in diritto. In quella ricerca della verità probabilistica si annida sempre la possibilità dell’errore. Pertanto il valore del dubbio dovrebbe portare al rifiuto di ogni arroganza cognitiva ed alla prudenza del giudizio, da cui “giuris- prudenza” come stile morale e intellettuale della pratica giudiziaria: per questo è inammissibile che un pubblico ministero scriva un libro intitolato “Io so” a proposito (anche) di un processo in corso da lui stesso istruito.

4) La disponibilità all’ascolto delle opposte ragioni e l’indifferente ricerca del vero: da qui il dovere della rigorosa verifica anche delle ragioni dell’imputato.

5) La comprensione e la valutazione equitativa della singolarità di ciascun caso. Dovere della comprensione e della valutazione delle circostanze singolari e irripetibili che fanno ciascun caso irriducibilmente diverso da qualunque altro. Una indulgenza equitativa soprattutto a favore dei soggetti più deboli, che deve influire sulla decisione della misura della pena e che non può ignorare il carattere disumano delle condizioni di vita dei detenuti in contrasto con il dettato costituzionale del divieto di trattamenti contrari al senso di umanità.

6) Il rispetto di tutte le parti in causa. Per il principio costituzionale di uguaglianza e di pari dignità sociale, ma anche per il principio di legalità in forza del quale si è puniti per quello che si è fatto e non per quello che si è, bisogna giudicare il fatto e non la persona, il reato e non il suo autore, la cui identità e interiorità sono sottratte al giudizio penale.

7) La capacità di suscitare la fiducia delle parti, anche degli imputati. Nel rapporto con l’opinione pubblica e con le parti in causa il magistrato non deve cercare il consenso ma, sulla base del corretto esercizio dei suoi poteri, deve essere capace di assolvere anche quando tutti chiedono la condanna o di condannare quando tutti chiedono l’assoluzione. Deve cioè convincere della fiducia nella sua imparzialità anche perché solo così le parti ricorderanno se ha violato i loro diritti o li ha garantiti e, in questo secondo caso, difenderanno la giurisdizione e la sua indipendenza come una loro garanzia.

8) Il valore della riservatezza del magistrato riguardo ai processi di cui è titolare. La figura del “giudice star” è la negazione del modello garantista della giurisdizione ed è inammissibile che i magistrati parlino in pubblico o in televisione dei processi loro affidati, sostenendo le loro accuse, lamentando gli ostacoli o il mancato sostegno politico alle loro indagini o addirittura polemizzando con un loro imputato e formulando pesanti insinuazioni senza contraddittorio. Sappiamo quanto il populismo politico sia una minaccia per la democrazia rappresentativa, ma ancor più minaccioso è la miscela di populismo politico e di populismo giudiziario. Quanto meno il populismo politico punta al rafforzamento, sia pur demagogico, del consenso, cioè della fonte di legittimazione che è propria dei poteri politici. Ben più grave è il populismo giudiziario, che diventa intollerabile allorquando serve da trampolino per carriere politiche.

9) Il rifiuto anche solo del sospetto di una strumentalizzazione politica della giurisdizione. I magistrati, come tutti i cittadini (art. 51 della Cost.), hanno il diritto di partecipare alle competizioni politiche, ma serve una più rigorosa disciplina per questa partecipazione, che magari ne escluda la candidabilità nel luogo in cui ha esercitato le funzioni e il rientro in tale luogo alla fine del mandato elettorale. Forse sarebbero opportune le dimissioni di chi si candida a funzioni pubbliche elettive: un onere che, se anche non stabilito dalla legge, dovrebbe oggi essere avvertito da qualunque magistrato come un dovere di deontologia professionale.

Non aggiungo niente di mio, se non la piena adesione a queste riflessioni trasposte in massime deontologiche. Spero solo che Ferrajoli perdoni ogni eventuale incongruità della sintesi con il suo magistrale intervento.

Giuseppe Di Lello

il manifesto, 12/2/2013

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