Uno strumento inadeguato produce un altro risultato.
Le “primarie” sono un voto. Come tale seguono le regole di qualsiasi altro voto: esposizione mediatica, risorse finanziarie, carisma sono le condizioni per essere eletti e il risultato è la delega politica al vincitore.
L’alta “partecipazione” è un segno positivo per la democrazia (rappresentativa), ha prodotto un livello più alto, o più forte, di delega.
Le “primarie” hanno dimostrato che anche “i progressisti” sono nella società e ne vivono le dinamiche nello stesso modo: delusioni, bisogno di rassicurazioni, indicazioni di soluzioni, speranze e ancora delega.
Da questa logica sembra non sfuggire nessuno e nulla.
Se lo strumento è inadeguato il risultato è solo la replica dei risultati elettorali del tempo della crisi: insoddisfazione e sdegno, rabbia verso i partiti e populismo, tendenze moderate stabilizzanti e attese messianiche, leaderismo e personalismi, ma… l’effetto finale per il cittadino è ancora la delega. Non esistono strumenti di controllo dal basso, il cittadino/elettore interverrà solo alle prossime elezioni, forse per cambiare il voto, ma in ogni caso per ripetere il rito della delega.
Queste non sono le regole di una società malata ma di una società normale in tempo di crisi.
Se si legge la crisi e la si considera governabile e i processi in corso riformabili si fa bene a stare nel recinto, ma si deve sapere dove si sta andando, con chi e per cosa.
I poteri di decisione, sempre più lontani dal luogo di ricaduta degli effetti delle scelte, limitano le politiche locali o nazionali che devono adeguarsi alle indicazioni europee e/o mondiali (il “successo” di Monti sta esclusivamente nella “credibilità internazionale”).
In verità quel percorso è stato scritto, intorno alla crisi quelle scelte sono “obbligate” perché dettate dall’agenda della Banca Europea e del Fondo Monetario Internazionale: i “poteri forti” (in Africa, in Asia e in America latina è così da anni, voluti da noi per tenere alto il nostro tenore di vita!). Non c’è nulla di riformabile …
Mentre se si legge la crisi come il prodotto del capitalismo della globalizzazione, non prodotto degenerato ma manifestazione dello stesso, e nello stesso modo si leggono le politiche che si sono compiute finora per uscirne, la strada è opposta. Quelle politiche (neoliberiste), che riproducono i processi economici che hanno determinato questa crisi, sono viste come strumenti inevitabili di una politica che ha l’obiettivo di ridurre il peso delle scelte pubbliche in economia e del welfare, …se è così, si sta fuori dal recinto per cercare l’alternativa.
I tempi della politica saranno lunghi, ma è urgente compiere le scelte: i movimenti invece dei partiti, i conflitti complessi, frammentati e contraddittori invece delle istituzioni.
Rifondazione Comunista tentò una strada quando il movimento dei movimenti era più forte ma forse meno diffuso. Quella esperienza, a me carissima, è fallita (possiamo ragionarne per capire…).
Un voto è un voto, un voto partecipato è solo un livello più alto di delega.
In presenza dell’impossibilità, anche dei sindacati, di rappresentare la complessità dei bisogni sociali prodotti dai guasti dei processi economici e sociali a partire dagli anni ’80 e l’inadeguatezza della politica dobbiamo sottrarci a tutto ciò, uscire dal recinto.
Costruire l’autodeterminazione dei bisogni e l’autorganizzazione dei conflitti diventa l’unica strada praticabile nel tempo della crisi della politica, che è crisi dei partiti e crisi della democrazia.
Questo percorso si può intraprendere senza sapere, almeno oggi, dove si sta andando: perché i tempi della politica saranno lunghi, bisogna solo riuscire a tenere insieme le diversità dei movimenti, i conflitti locali e generali con la radicalità delle scelte contro il capitalismo globalizzato.
Ripartire dalla critica della nostra esperienza e dalla critica del capitalismo contemporaneo sarebbe già un buon inizio.
marco sansoè