Il mondo sembra aver bisogno di poesia, forse, …certamente ne abbiamo bisogno noi.
Può sembrare una provocazione scritto su queste pagine, stretti come siamo tra la necessità di analisi della crisi economica, politica e culturale del presente e l’urgenza di ricerca di una via d’uscita radicale e alternativa.
Non è così: la lettura della contemporaneità è multiforme, diversi sono i modi e le tecniche, la letteratura è uno dei modi di “leggere” il mondo, la letteratura che ha a cuore la ricerca della bellezza, del piacere estetico che è un piacere non solo intellettuale. Non sto scrivendo del “nuovo realismo” di tanti romanzi noir e polizieschi o pulp coniugati nelle diverse territorialità, con le loro varianti linguistiche e di costume. Non mi riferisco nemmeno alla narrativa che “celebra la liturgia della terra e della realtà sociale”, carica di personaggi precari per la loro condizione sociale, ma forse ancor più per come sono costruiti e narrati.
Vorrei scrivere di un tentativo di fare letteratura sapendo di fare solo questa e, nel mentre, aiutare indirettamente il lettore ad accorgersi che di questo si tratta e non di altro. Un opera prima di un giovane poco più che trentenne Francesco Targhetta che ha scritto un romanzo in versi, Perciò veniamo bene nelle fotografie, ISBN, € 19,90, che racconta di altri trentenni che “vivono” occasioni comuni, che non possono che essere precarie, perché questa è la contemporaneità. Senza ostentazioni, senza sottolineature negli avvenimenti, senza istantanee o frammenti di sceneggiatura inseriti per caso o di proposito nella narrazione. Solo un flusso continuo di quotidianità normali e per questo disarmanti. Nemmeno raccontate ma solo percepite con la lingua ambigua dell’interiorità quella che dice e tace o nasconde insieme. Una ambiguità resa efficacemente dal linguaggio poetico, il solo che possa provare a dire l’indicibile, fino a svelare ciò che non si vorrebbe dire. Una lingua che in Targhetta non è mai esercizio o gioco linguistico, l’uso è quello di una lingua piana che non fa sfoggio di sé e nemmeno si adegua al realismo del parlato giovanile. Non c’è spazio per l’immedesimazione facile, non siamo attratti da qualche trucco verbale o percorso di identificazione, ma solo dalla possibilità che nel lettore prenda corpo la pietas, una condivisione, che pur assumendo i contorni delle emozioni, è soprattutto solidarietà, scelta di accompagnare quei personaggi durante la lettura. Il lettore così è libero di leggere una contemporaneità precaria filtrata dalle percezioni soggettive del narratore e dei suoi amici, che non sono incaricati dall’autore di ri-leggere la realtà, perché questo è un compito che l’autore lascia al lettore.
Un’opera aperta dunque, perché Targhetta non fa sociologia ma letteratura e perché usa il linguaggio della poesia. Roland Barthes ci ricordava che “il fascismo non è impedire di dire, ma obbligare a dire” e che questo è un rischio sempre presente in quanto “il linguaggio è una legislazione e la lingua ne è il codice”, per questo il “potere è insito nella lingua”. Ma la letteratura appare il linguaggio in grado di scassinare questa condizione in virtù della sua ambiguità, della possibilità che la letteratura ha di lasciare il lettore libero di leggere e interpretare, e la poesia in massimo grado, proprio perché svela (o nasconde) anche il non detto, lasciando a noi l’occasione di “riscriverlo”.
Così l’amara constatazione che “…: non si muove nessuno, / qua, / perciò veniamo bene / nelle fotografie”, leggendo questo romanzo in versi si trasforma nell’invito a muoverci, ci lascia liberi di ricercare nella memoria e nei volti dei trentenni che conosciamo il senso di questa contemporaneità, ci permette di prendere parte e scegliere di correre il rischio di venire mossi nelle fotografie di domani.
Biella, 24/8/201
marco sansoè