I movimenti
I movimenti sono i movimenti, sono come sono ed è illusorio volerli come ci piacerebbero, non si cambiano, si condividono.
Questi di oggi sono tanti, diversi e diffusi. Agiscono sul territorio, nei luoghi di lavoro e di studio. Difendono spazi vitali e il territorio, chiedono la fine del precariato e diritti, il rispetto delle persone e il miglioramento della qualità della vita, non vogliono pagare “il debito” prodotto dai ricchi e dai potenti e chiedono giustizia sociale. I movimenti sono fatti di persone che agiscono sui bisogni, sui propri e su quelli della collettività, per questo affrontano solo le questioni che conoscono, che li coinvolgono. Condividono con altri una condizione. Sanno che le responsabilità della propria condizione è di altri, sanno chi sono i responsabili, li combattono e chiedono risposte e chiedono cambiamento. Non delegano a nessuno, sanno che devono fare da soli, perché hanno la netta percezione della crisi della politica: sanno della crisi dei partiti, sanno che la democrazia rappresentativa è solo uno strumento, per questo usano le istituzioni senza delegare nulla, le usano per ottenere risposte. Nessuno li rappresenta e non si fanno rappresentare da alcuno ma le richieste le rivolgono a tutti.
Al loro interno ci sono associazioni e gruppi organizzati, pezzi di sindacato e militanti di partito, ma soprattutto persone, giovani e no, che agiscono per affrontare problemi e per risolverli. Mal sopportano i leader ma spesso ne subiscono il fascino (sono persone del nostro tempo) e il “ceto politico” militante ne approfitta per indirizzare e egemonizzare strategie e azioni. Ma i movimenti si muovono in fretta e in avanti, perché perseguono obiettivi comuni e condivisi, mentre quel “ceto politico” arranca tra ideologie senza scienza e vecchie illusioni che non sono più utopie concrete.
In questi movimenti ci sono gruppi organizzati che per rabbia o disperazione o scelta (le cose convivono) ambiscono allo scontro diretto con i responsabili della loro condizione difficile e precaria. Così distruggono, si scontrano con le forze dell’ordine, violentano spazi e diritti. Ci sono anche loro nei movimenti, ma non ne fanno parte, nel senso che non condividono il percorso di individuazione e liberazione dai bisogni: sono rinchiusi in sé, convinti, forse, di essere avanguardie di un movimento (del passato) che non è questo.
La società contemporanea non capisce i movimenti perché è arrogante: crede di rappresentare l’unico presente possibile e non è capace di mettersi in discussione, si affida alle logiche obsolete del potere. Davanti ai movimenti prima si stupisce della loro esistenza o li assimila alle esperienze passate, poi spera nel loro fallimento; e quando non ha più risorse insinua e infiltra per falsificare e destabilizzare.
La società contemporanea teme i movimenti perché sono “eversivi”: questi nell’azione praticano la partecipazione, condividono l’autodeterminazione dei bisogni e propongono la difesa e l’allargamento dei “beni comuni”. Sono “eversivi” perché le loro pratiche sono estranee alle pratiche del potere, sfuggono a quella logica e propongono “un altrove” che spiazza la politica e i partiti di sinistra. Per alcuni dovranno essere fermati, per altri “egemonizzati”, per altri annientati. Ma non sarà possibile perché i movimenti sono gli unici soggetti politici, nella società contemporanea, che stanno lavorando per il futuro (e nel presente hanno già perso abbastanza).
I media avvezzi al futile parlano di ceto politico, di politica delle istituzioni, dei violenti. Forse le grandi manifestazioni sono una “vecchia pratica” che ha il sapore dell’occupazione dei simboli, della gestione delle ideologie. Forse è più “naturale” lavorare dove ci troviamo a farlo, senza cedere alle sirene narcisistiche dei media nazionali. Forse è nei territori periferici, nei luoghi di lavoro e di studio che dobbiamo continuare a scavare per costruire una società alternativa. …e quando ci sposteremo al centro potremmo essere milioni, non più per manifestare, ma per prenderci ciò che è di tutti: il presente.
Biella, Ottobre 2011
marco sansoè