Nel 1940 il grande intellettuale e militante afro-americano W.E.B. Du Bois diede alle stampe un libro autobiografico intitolato Dusk of Dawn. Il cortocircuito temporale che così veniva indicato, «il crepuscolo dell’alba», sintetizzava in modo fulminante l’esperienza storica delle popolazioni per cui l’accesso alla modernità, al suo tempo lineare e progressivo, è coinciso con la tratta, la schiavitù, la conquista e la dominazione coloniale. Ma il titolo del libro di Du Bois mi viene spesso in mente a proposito del nostro presente, di un’epoca in cui il capitalismo, al culmine dei processi di globalizzazione e finanziarizzazione, sembra tornare a presentare alcune delle caratteristiche che ne avevano segnato l’origine (l’«alba»). Il «comune» è nuovamente il principale terreno su cui si dispiegano i processi di valorizzazione e accumulazione del capitale. E se la fenomenologia di questo «comune» appare oggi infinitamente più ricca ed eterogenea di quella analizzata da Marx in un celebre capitolo del Capitale (quello appunto dedicato alla «cosiddetta accumulazione originaria»), non certo minore è la violenza con cui vecchie e nuove «recinzioni» sconvolgono la vita di intere popolazioni. Come ai tempi in cui nelle campagne inglesi l’industria tessile nascente imponeva l’abolizione di secolari «usi comuni» delle terre per trasformarle in pascoli, distruggendo le condizioni stesse di vita di grandi masse rurali, anche oggi la terra è spesso al centro di questi processi – dall’India all’Africa, dalla Cina alla Val di Susa. Ma le recinzioni contemporanee tagliano altresì trasversalmente la cooperazione e la produzione di conoscenza all’interno delle reti, si esercitano sul Dna umano nello sviluppo dei nuovi farmaci «post-genomici», e soprattutto sono uno dei dispositivi essenziali attraverso cui agisce il capitale finanziario a livello globale. «Privatizzazioni» e austerity vanno a incidere precisamente su «beni» diffusamente percepiti come comuni, dall’istruzione all’acqua, dalla salute alle pensioni, per trasformarli in generatori di rendite finanziarie.
Il saccheggio annunciato
Anche all’interno delle lotte e dei movimenti sociali, del resto, il tema del comune è balzato in primo piano negli ultimi anni, con particolare intensità dall’inizio della grande crisi nel 2007/2008. Battaglie come quella di Cochabamba, in Bolivia, contro la privatizzazione dell’acqua, o quella di Nandigram, in Bengala occidentale, contro l’esproprio di terre per conto della Tata, hanno avuto risonanza globale proprio per la forza con cui hanno posto la questione del comune. E sono diventate fonte di ispirazione ad esempio per le lotte contro la privatizzazione del web o degli spazi pubblici metropolitani, per limitarci a due esempi dell’articolazione dei movimenti su una molteplicità di terreni, corrispondenti a quella che caratterizza le recinzioni contemporanee. La stessa giornata di mobilitazione di ieri, 15 ottobre, può essere letta come un momento di confluenza di almeno una parte di queste lotte. E non a caso è stata indetta da quel movimento delle acampadas spagnole che è nato restituendo alle piazze di città come Madrid e Barcellona il loro significato di luoghi comuni.
A questa rinnovata centralità del tema del comune è corrisposta una ricca discussione all’interno del pensiero critico (basti ricordare il libro di Michael Hardt e Toni Negri, Comune, Rizzoli), mentre l’attribuzione nel 2009 del premio Nobel per l’economia a Elinor Ostrom per il suo libro Governing the Commons (1990. tradotto in italia da Bruno Mondadori con il titolo «Governo dei beni comuni») ha segnato l’ingresso dei «beni comuni» nel mainstream accademico e scientifico del «post-crisi». Non si può che essere soddisfatti di quest’ultimo sviluppo, ma bene fa Ugo Mattei, nel suo Beni comuni. Un manifesto (Laterza, pp. 115, euro 12), a mettere in guardia dal rischio che, una volta trasformato in un buzzword, in una parola alla moda buona per tutti gli usi, il concetto di «beni comuni» finisca per perdere «il suo rivoluzionario potenziale teorico e di prassi per assumere connotati politicamente ambigui».
Nato dalla partecipazione del suo autore a fondamentali esperienze politiche degli ultimi anni (dalla Commissione Rodotà per la riforma dei beni pubblici alla battaglia referendaria sull’acqua e a quella contro la Tav), questo Manifesto si propone al contrario di fare emergere in piena luce proprio il «potenziale rivoluzionario» della nozione di «beni comuni». Con la solita scrittura chiara e accattivante, Mattei guida il lettore attraverso i due versanti di emergenza del tema del comune che si sono richiamati, analizzando sia le diverse modalità attraverso cui opera il «saccheggio» dei commons (per richiamare il titolo del volume da lui scritto insieme a Laura Nader, pubblicato in Italia da Bruno Mondadori) sia alcuni dei movimenti più significativi che muovendo dall’opposizione ad esso hanno prefigurato nuovi scenari costituenti. Si sofferma sull’«alba» del modo di produzione capitalistico, analizzando le recinzioni in Inghilterra e la concomitante conquista del «nuovo mondo». E si interroga sul suo «crepuscolo», su un presente in cui il comune gli appare come nuovo paradigma (insieme politico, scientifico e filosofico) all’interno del quale pensare un futuro oltre il capitale.
Oltre lo Stato e il mercato
Raffinato giurista, come i lettori del Manifesto ben sanno, Mattei mostra in modo davvero efficace come la modernità politica e giuridica occidentale, inaugurata dalla «violentissima epopea delle enclosures», sia stata dominata dalla tensione, e in fondo dalla specularità, tra due modelli, ovvero «quello dello Stato sovrano e quello della proprietà privata». Per quanto nella storia moderna questi due modelli abbiano dato vita a una serie di opposizioni, ad esempio tra socialismo e liberalismo, nazionalizzazioni e privatizzazioni, essi condividono una medesima logica «esclusiva» (evidente per la proprietà privata che anche etimologicamente significa «proprietà ‘tolta’, ‘sottratta’» al godimento altrui, ma altrettanto stringente per lo Stato sovrano, come si evince in particolare dal rapporto che intrattiene con il «suo»territorio, perimetrato da stabili confini). E operano di concerto nel garantire la continuità dell’accumulazione del capitale. È un punto teoricamente e politicamente molto importante, che indica in particolare la necessità di pensare il comune, caratterizzato al contrario dal libero accesso al suo godimento, oltre il «pubblico». Quando Mattei afferma che «la categoria di beni comuni è chiamata a svolgere (una) funzione costituzionale nuova», si muove così su un terreno che appare più esatto definire «costituente» piuttosto che di riforma costituzionale, considerata la forza con cui la «tenaglia» di pubblico e privato ha stretto l’immaginazione e i modelli costituzionali nella modernità.
Ho fin qui utilizzato senza ulteriori specificazioni la formula «beni comuni» che dà il titolo a questo Manifesto. È il caso di sottolineare, in conclusione, che non è priva di ambiguità. Il termine «bene» è carico di valenze morali, economiche, giuridiche, filosofiche e teologiche, di cui non ci si libera declinandolo al plurale e aggettivandolo con «comuni». Mattei ne è ben consapevole, e a più riprese si confronta con il problema. Sottolinea l’impossibilità di pensare un «bene comune» al di fuori del sistema di relazioni che lo costituisce e delle pratiche di conflitto che ne affermano la legittimità. È soprattutto giustamente critico nei confronti delle classificazioni che cominciano a emergere dei «beni comuni»: al di là delle discutibili distinzioni che propongono fra «natura» e «cultura» (è possibile pensare l’acqua come «bene comune» al di fuori della complessa organizzazione del suo uso, della sua canalizzazione e distribuzione?), il rischio segnalato da Mattei è quello di consegnare i «beni» così censiti alla logica, «sempre in agguato, della mercificazione».
Paradossi della comunità
La soluzione proposta nel Manifesto è quella di una comprensione «ecologica», «relazionale» e «olistica» dei beni comuni, che ne valorizzi gli «inestricabili nessi con la comunità di riferimento» e ponga le basi per ripensare complessivamente i «rapporti fra individui, comunità, contesti e ambienti». Si tratta, come è evidente, di un atteggiamento di pensiero diffuso sia nei dibattiti teorici a sinistra sia nei movimenti. Restando al libro di Mattei, in ogni caso, il rischio che mi pare emergere da questa curvatura del suo pensiero è quello di immaginare le «comunità di riferimento» dei beni comuni come eccessivamente compatte e pacificate, strette attorno a un diritto che, trasformato esso stesso in un «bene comune», può facilmente occultare dure gerarchie e precisi rapporti di potere.
Si potrebbe discutere a lungo di questo rischio, che è stato ad esempio denunciato da molte femministe in Bolivia, realtà molto importante per Mattei, a proposito della posizione attribuita alle donne in alcune retoriche «indigeniste». Ma il discorso vale anche, su un altro piano, per la definizione del «lavoro come bene comune» (ripresa nel libro da uno slogan della Fiom, in cui il «lavorismo» della tradizione socialista sembra far dimenticare – detto nel modo più semplice possibile – quanto di «male» vi sia nel lavoro (che non a caso, in molte lingue europee, è etimologicamente associato al «travaglio»).
Sotto il profilo teorico, tuttavia, è più importante insistere sulla sconnessione tra il piano di un comune nominato al singolare e quello dei «beni comuni». Non è una mera distinzione terminologica (e non significa naturalmente negare spocchiosamente l’opportunità di utilizzare il linguaggio dei «beni comuni» all’interno di singole campagne e mobilitazioni). È una mossa concettuale preliminare per aprire un terreno di sperimentazione che sia realmente oltre quello presidiato dalla specularità tra le figure del pubblico e del privato. Su questo terreno deve collocarsi la nuova «intelligenza comune» evocata da Mattei in alcune delle pagine più suggestive del suo Manifesto.
Sandro Mezzadra
Il manifesto, 16/10/2011
Nel 1940 il grande intellettuale e militante afro-americano W.E.B. Du Bois diede alle stampe un libro autobiografico intitolato Dusk of Dawn. Il cortocircuito temporale che così veniva indicato, «il crepuscolo dell’alba», sintetizzava in modo fulminante l’esperienza storica delle popolazioni per cui l’accesso alla modernità, al suo tempo lineare e progressivo, è coinciso con la tratta, la schiavitù, la conquista e la dominazione coloniale. Ma il titolo del libro di Du Bois mi viene spesso in mente a proposito del nostro presente, di un’epoca in cui il capitalismo, al culmine dei processi di globalizzazione e finanziarizzazione, sembra tornare a presentare alcune delle caratteristiche che ne avevano segnato l’origine (l’«alba»). Il «comune» è nuovamente il principale terreno su cui si dispiegano i processi di valorizzazione e accumulazione del capitale. E se la fenomenologia di questo «comune» appare oggi infinitamente più ricca ed eterogenea di quella analizzata da Marx in un celebre capitolo del Capitale (quello appunto dedicato alla «cosiddetta accumulazione originaria»), non certo minore è la violenza con cui vecchie e nuove «recinzioni» sconvolgono la vita di intere popolazioni. Come ai tempi in cui nelle campagne inglesi l’industria tessile nascente imponeva l’abolizione di secolari «usi comuni» delle terre per trasformarle in pascoli, distruggendo le condizioni stesse di vita di grandi masse rurali, anche oggi la terra è spesso al centro di questi processi – dall’India all’Africa, dalla Cina alla Val di Susa. Ma le recinzioni contemporanee tagliano altresì trasversalmente la cooperazione e la produzione di conoscenza all’interno delle reti, si esercitano sul Dna umano nello sviluppo dei nuovi farmaci «post-genomici», e soprattutto sono uno dei dispositivi essenziali attraverso cui agisce il capitale finanziario a livello globale. «Privatizzazioni» e austerity vanno a incidere precisamente su «beni» diffusamente percepiti come comuni, dall’istruzione all’acqua, dalla salute alle pensioni, per trasformarli in generatori di rendite finanziarie.
Il saccheggio annunciato
Anche all’interno delle lotte e dei movimenti sociali, del resto, il tema del comune è balzato in primo piano negli ultimi anni, con particolare intensità dall’inizio della grande crisi nel 2007/2008. Battaglie come quella di Cochabamba, in Bolivia, contro la privatizzazione dell’acqua, o quella di Nandigram, in Bengala occidentale, contro l’esproprio di terre per conto della Tata, hanno avuto risonanza globale proprio per la forza con cui hanno posto la questione del comune. E sono diventate fonte di ispirazione ad esempio per le lotte contro la privatizzazione del web o degli spazi pubblici metropolitani, per limitarci a due esempi dell’articolazione dei movimenti su una molteplicità di terreni, corrispondenti a quella che caratterizza le recinzioni contemporanee. La stessa giornata di mobilitazione di ieri, 15 ottobre, può essere letta come un momento di confluenza di almeno una parte di queste lotte. E non a caso è stata indetta da quel movimento delle acampadas spagnole che è nato restituendo alle piazze di città come Madrid e Barcellona il loro significato di luoghi comuni.
A questa rinnovata centralità del tema del comune è corrisposta una ricca discussione all’interno del pensiero critico (basti ricordare il libro di Michael Hardt e Toni Negri, Comune, Rizzoli), mentre l’attribuzione nel 2009 del premio Nobel per l’economia a Elinor Ostrom per il suo libro Governing the Commons (1990. tradotto in italia da Bruno Mondadori con il titolo «Governo dei beni comuni») ha segnato l’ingresso dei «beni comuni» nel mainstream accademico e scientifico del «post-crisi». Non si può che essere soddisfatti di quest’ultimo sviluppo, ma bene fa Ugo Mattei, nel suo Beni comuni. Un manifesto (Laterza, pp. 115, euro 12), a mettere in guardia dal rischio che, una volta trasformato in un buzzword, in una parola alla moda buona per tutti gli usi, il concetto di «beni comuni» finisca per perdere «il suo rivoluzionario potenziale teorico e di prassi per assumere connotati politicamente ambigui».
Nato dalla partecipazione del suo autore a fondamentali esperienze politiche degli ultimi anni (dalla Commissione Rodotà per la riforma dei beni pubblici alla battaglia referendaria sull’acqua e a quella contro la Tav), questo Manifesto si propone al contrario di fare emergere in piena luce proprio il «potenziale rivoluzionario» della nozione di «beni comuni». Con la solita scrittura chiara e accattivante, Mattei guida il lettore attraverso i due versanti di emergenza del tema del comune che si sono richiamati, analizzando sia le diverse modalità attraverso cui opera il «saccheggio» dei commons (per richiamare il titolo del volume da lui scritto insieme a Laura Nader, pubblicato in Italia da Bruno Mondadori) sia alcuni dei movimenti più significativi che muovendo dall’opposizione ad esso hanno prefigurato nuovi scenari costituenti. Si sofferma sull’«alba» del modo di produzione capitalistico, analizzando le recinzioni in Inghilterra e la concomitante conquista del «nuovo mondo». E si interroga sul suo «crepuscolo», su un presente in cui il comune gli appare come nuovo paradigma (insieme politico, scientifico e filosofico) all’interno del quale pensare un futuro oltre il capitale.
Oltre lo Stato e il mercato
Raffinato giurista, come i lettori del Manifesto ben sanno, Mattei mostra in modo davvero efficace come la modernità politica e giuridica occidentale, inaugurata dalla «violentissima epopea delle enclosures», sia stata dominata dalla tensione, e in fondo dalla specularità, tra due modelli, ovvero «quello dello Stato sovrano e quello della proprietà privata». Per quanto nella storia moderna questi due modelli abbiano dato vita a una serie di opposizioni, ad esempio tra socialismo e liberalismo, nazionalizzazioni e privatizzazioni, essi condividono una medesima logica «esclusiva» (evidente per la proprietà privata che anche etimologicamente significa «proprietà ‘tolta’, ‘sottratta’» al godimento altrui, ma altrettanto stringente per lo Stato sovrano, come si evince in particolare dal rapporto che intrattiene con il «suo»territorio, perimetrato da stabili confini). E operano di concerto nel garantire la continuità dell’accumulazione del capitale. È un punto teoricamente e politicamente molto importante, che indica in particolare la necessità di pensare il comune, caratterizzato al contrario dal libero accesso al suo godimento, oltre il «pubblico». Quando Mattei afferma che «la categoria di beni comuni è chiamata a svolgere (una) funzione costituzionale nuova», si muove così su un terreno che appare più esatto definire «costituente» piuttosto che di riforma costituzionale, considerata la forza con cui la «tenaglia» di pubblico e privato ha stretto l’immaginazione e i modelli costituzionali nella modernità.
Ho fin qui utilizzato senza ulteriori specificazioni la formula «beni comuni» che dà il titolo a questo Manifesto. È il caso di sottolineare, in conclusione, che non è priva di ambiguità. Il termine «bene» è carico di valenze morali, economiche, giuridiche, filosofiche e teologiche, di cui non ci si libera declinandolo al plurale e aggettivandolo con «comuni». Mattei ne è ben consapevole, e a più riprese si confronta con il problema. Sottolinea l’impossibilità di pensare un «bene comune» al di fuori del sistema di relazioni che lo costituisce e delle pratiche di conflitto che ne affermano la legittimità. È soprattutto giustamente critico nei confronti delle classificazioni che cominciano a emergere dei «beni comuni»: al di là delle discutibili distinzioni che propongono fra «natura» e «cultura» (è possibile pensare l’acqua come «bene comune» al di fuori della complessa organizzazione del suo uso, della sua canalizzazione e distribuzione?), il rischio segnalato da Mattei è quello di consegnare i «beni» così censiti alla logica, «sempre in agguato, della mercificazione».
Paradossi della comunità
La soluzione proposta nel Manifesto è quella di una comprensione «ecologica», «relazionale» e «olistica» dei beni comuni, che ne valorizzi gli «inestricabili nessi con la comunità di riferimento» e ponga le basi per ripensare complessivamente i «rapporti fra individui, comunità, contesti e ambienti». Si tratta, come è evidente, di un atteggiamento di pensiero diffuso sia nei dibattiti teorici a sinistra sia nei movimenti. Restando al libro di Mattei, in ogni caso, il rischio che mi pare emergere da questa curvatura del suo pensiero è quello di immaginare le «comunità di riferimento» dei beni comuni come eccessivamente compatte e pacificate, strette attorno a un diritto che, trasformato esso stesso in un «bene comune», può facilmente occultare dure gerarchie e precisi rapporti di potere.
Si potrebbe discutere a lungo di questo rischio, che è stato ad esempio denunciato da molte femministe in Bolivia, realtà molto importante per Mattei, a proposito della posizione attribuita alle donne in alcune retoriche «indigeniste». Ma il discorso vale anche, su un altro piano, per la definizione del «lavoro come bene comune» (ripresa nel libro da uno slogan della Fiom, in cui il «lavorismo» della tradizione socialista sembra far dimenticare – detto nel modo più semplice possibile – quanto di «male» vi sia nel lavoro (che non a caso, in molte lingue europee, è etimologicamente associato al «travaglio»).
Sotto il profilo teorico, tuttavia, è più importante insistere sulla sconnessione tra il piano di un comune nominato al singolare e quello dei «beni comuni». Non è una mera distinzione
terminologica (e non significa naturalmente negare spocchiosamente l’opportunità di utilizzare il linguaggio dei «beni comuni» all’interno di singole campagne e mobilitazioni). È una mossa concettuale preliminare per aprire un terreno di sperimentazione che sia realmente oltre quello presidiato dalla specularità tra le figure del pubblico e del privato. Su questo terreno deve collocarsi la nuova «intelligenza comune» evocata da Mattei in alcune delle pagine più suggestive del suo Manifesto.
Sandro Mezzadra
Il manifesto, 16/10/2011