L’altra metà del lavoro. Domande in attesa di risposte.
Rossana Rossanda
Il «Manifesto per il lavoro» della Libreria delle donne di Milano considera la flessibilità un’occasione per conciliare maternità e lavoro. Ma rimuove i bassi salari delle migranti nel lavoro domestico, la cancellazione dello stato sociale e la differenza salariale tra uomini e donne
Immagina che il lavoro («Sottosopra», ottobre 2009; ne ha già scritto sul manifesto Laura Pennacchi) è la proposta d’un gruppo della Libreria delle Donne di Milano, sulla quale è impegnata Lia Cigarini. Conosco Lia da una vita, vivevamo vicine, fra gli anni Cinquanta e i primi Sessanta, lei più giovane, in una Milano dove le donne entravano in massa nel lavoro. In verità, entrare nel lavoro voleva dire diventare salariate, perché lavorare, avevano lavorato sempre. Nella cascina, che non era né casa né fabbrica, o nel podere in Veneto, a pieno tempo su terra altrui, mezzadre in Toscana e in Emilia, o braccianti stagionali, o nell’acqua delle risiere fino alle ginocchia come le favoleggiate mondine. Sempre, oltre che in casa, in qualche lembo delle produzione agricola o dei servizi. Quando entrarono in fabbrica diventarono operaie, si incontravano nei tram molto mattutini o serali, assonnate, vestite di furia, la permanente ferrea, o appoggiate al sole fuori dell’Alfa nell’intervallo della mensa. Uscivano di casa prestissimo, rifatti i letti e avviata la minestra, correvano al lavoro, risalivano le scale la sera dopo frettolosi acquisti a preparare la cena. Dopo cena lavavano e stiravano, la domenica mattina lustravano. In busta paga avevano di regola meno degli uomini, oltre che inquadrate ai livelli inferiori.
Maternità? Ogni tanto una era contenta. Ogni tanto un’altra correva di nascosto a un certo indirizzo e ne usciva verde in faccia e col ventre sanguinante. Altre sprofondavano in maternità faticose, tirando la vita con i denti e facendo qualche servizio. Tutte leggevano avidamente le dolci idiozie dei romanzi a fumetti.
Donne al lavoro
La composizione della forza di lavoro cambiò in quegli anni. In fabbrica e negli uffici le donne erano molte di più – anche se meno che in Francia e in Germania. Un terzo della manodopera teneva otto ore un piede in azienda, almeno due in tram, altre sei in famiglia fra spesa, pulizie, cibo e figli, scordando ogni riposo, per non dire la politica e il sindacato. Meno di venti anni dopo le stesse sarebbero scese per strada a manifestare per il divorzio e l’aborto, oblique libertà. Ma non esitarono. Un diritto avrebbe da esser bello e l’aborto non lo era. Era un desiderio? Malinconico ma desiderio? Malinconica ma libertà? Era delitto per un medico su due, per un uomo e mezzo su due, nessun delitto ma tuo rischio per la mammana, zona di rabbiosi silenzi per le famiglie.
Donne era difficile. Sono certa soltanto di questo.
Sono passati quaranta o cinquanta anni e sempre più donne sono al lavoro, in azienda, nel pubblico e in certe professioni, insegnanti, medici, avvocate. Operaie, impiegate, consulenti, imprenditrici. Sono ancora in numero minore (almeno in chiaro) che in Francia e in Germania. Ancora un poco più istruite dei maschi, ma pagate il venti per cento di meno per le stesse mansioni. Ancora ritardate nella carriera in caso di maternità. Quelle che possono si fanno aiutare in casa con i bambini da altre donne; specie migranti che possono pagare poco e stentano a mettere in regola, per cui la concorrenza ai minimi è sfrenata.
Il migrante è nell’edilizia, la migrante è nel lavoro domestico. Tutti e due, i migranti, ricattati nell’eterno precariato dei servizi e delle false cooperative di pulizie. Ma se questi sono a livello zero, a tutti i livelli – dal call center all’università, dal tour operator alla consulenza economica – tende diventare precario tutto l’impiego delle donne. Non sanno se in capo qualche settimana o mese il contratto sarà rinnovato. E non metteranno mai insieme i quaranta anni di contributi per la pensione.
Madri flessibili
Scrivono ora Lia e le donne di via Dogana: ma è una disgrazia? Non saremmo più felici se ci facessimo guidare dal desiderio invece che dalle passate ideologie, che ci hanno stretto al lavoro fisso e a tempo pieno, strozzando il nostro bisogno di stare con i figli? D’altra parte il desiderio ci suggerisce di essere madri, ma anche di accedere a quella ricchezza di rapporti che il lavoro domestico riduce. Lavoro è fatica ma anche socialità, a volte perfino una soddisfazione. Non solo sfruttamento. Diciamo dunque due volte sì, alla maternità e al lavoro.
Però, per essere vivibile il «doppio sì» non può comportare sedici ore di lavoro al giorno, otto pagate in azienda, due nei trasporti e sei in famiglia non pagate: si crepa di fatica. Guardiamo con occhio benevolo al tempo parziale, al contratto flessibile e atipico che l’impresa ci offre più facilmente. Riduciamo il tempo del lavoro esterno, facciamo quattro più due più quattro, o flessibilizziamolo, calcolandolo non a tempo (che troveremo nei pertugi) ma a risultato. Insomma mamma e impresa si possono incontrare, l’impresa gradisce avere una lavoratrice, come si diceva una volta dell’auto, just in time, e la mamma ha bisogno di essere più libera. Così il lavoro si femminilizza, aggiunge qualche amico entusiasta: le donne sono sempre di più, per meno tempo, più flessibili, non hanno la fissa della lotta di classe, della rigidità delle norme e dei diritti, d’un impiego pieno per la vita e con pensione successiva. Nel loro tempo, breve e articolato, portano le loro assai tradizionali qualità, precisione, cura, fluidità, scarsa conflittualità.
Bel quadro ma non convincente. Sono i tempi e i conti che non tornano. Per realizzaare felicemente il doppio sì occorrerebbero due condizioni; che il servizio pubblico garantisse una struttura professionale semigratuita per accudire la casa e i bambini mentre lei lavora, e che l’impresa pagasse la lavoratrice almeno come un uomo, dovendo provvedere a una piccola creatura. Se non ci sono queste due condizioni, come è stato in alcuni paesi scandinavi, il mezzo tempo non basta per vivere e tanto meno per pagare l’altra donna cui affidare la casa e i figli.
Il miraggio del welfare state
Le due condizioni in Italia non ci sono. Salvo in alcune città, il servizio pubblico non esiste o è ai minimi, e la Ue non fa che chiedere di ridurre la spesa pubblica almeno fino al 2013. I salari (per non parlare della mancanza di impieghi in tempo di crisi) tendono a degradarsi al precariato, che obbligandoti a pensare al mese in cui sarai sospesa, non ti invita certo a programmare una maternità. Paradossalmente, la proposta della Libreria implicherebbe quella società comunista a redistribuzione totale e mirata, che è stata buttata alle ortiche anche come miraggio da trent’anni in qua. E non abbiamo anche noi sussurratao, se non sbaglio, meno stato più mercato?
Nel mercato, e perdipiù deregolato, la cura della casa e di un figlio va pagata, a meno di non metterlo gratis sulle ginocchia di qualche nonna o zia, eternizzando la gratuità del lavoro femminile di cura, che solo chi non lo ha mai fatto può ritenere tutto gioia e piacevolezza. Nel mercato, con i pochi soldi che abbiamo, cercheremo di pagare la badante (come la chiama Bossi) il meno possibile; e non c’è limite alla corsa in basso delle remunerazioni in tempo di penuria, così anche noi mettiamo un ginocchio sul collo delle migranti. Stiamo male tutte e due perché le statistiche europee confermano che le donne sono retribuite (se va bene come in Francia) il 20 per cento meno degli uomini. In un’occupazione regolare. Perché nei contratti atipici i dati precipitano. E peggio va con la selva dei lavori autonomi, tanto sperati e glorificati, dove alla dipendente è chiesto perlopiù un sorta di cottimo, essendo pagata a risultato previo gradimento del datore di lavoro. È lavoro autonomo diventare venditrice di creme o di biancheria alle amiche, senza un minimo salariale né un contributo previdenziale? E già nello scomparire in occidente della grande fabbrica industriale, si profila la grande fabbrica dei servizi del 2000, dai call center ai grandi tour operator, all’assistenza dopo vendita delle grosse marche alle reti di comunicazione alle migliaia di impieghi il cui lavoro consiste nel cercar lavoro, grandi edifici di vetri e cristallo dove siedono in fila fianco a fianco migliaia di ragazze, ciascuna isolata in un gabbiotto con un certo numero di chiamate da fare o di pratiche da sbrigare in tempi rapidi prefissati.
Quando un compagno ci assicura che il lavoro si sta femminilizzando, intende che sarebbe più fluido e soave. Quale esempio di occhio maschile! Femminile, pensa, perché più elastico e, ha ragione, più a buon prezzo. E poi le donne sono dolci e concilianti, si dimentica che aprivano la vertenza alla Borletti prendendo a zoccolate i vetri della direzione. O erano consigliate dalle cattive maestre del movimento operaio? Andiamo. La verità è che nelle condizioni attuali il «doppio sì» può essere realizzato da donne relativamente abbienti: professioniste o impreditrici. Una normale operaia o impiegata non ce la fa.
La Libreria delle Donne ha ragione in un punto: nell’indicare un motivo della durezza della nostra condizione nell’introiezione di una condizione fatalmente subalterna. Ha ragione nell’invitate a dare ascolto a quel che sentiamo e vogliamo. A farne una leva contro lo spessore opaco dei rapporti patriarcali. Nel mondo del lavoro essi si impongono contro regolamenti, contratti e leggi. Ma desiderio non è sogno, è lucido confronto fra noi e quel che abbiamo davanti, noi e i rapporti che ci sono costruiti attorno, si nutre della volontà di non accettarli, di cambiare. Se non diventa questo non è desiderio, ma immaginario, e all’immaginario concediamo già troppo.
La mappa dei desideri
Farei una mappa assai concreta del mercato del lavoro, care amiche di Milano. E anche una mappa dei desideri. È proprio vero che è iscritto nel nostro Dna il bisogno di maternità? Molte di noi, non un’esile minoranza, non sono madri. O non hanno voluto o non hanno potuto e in ogni caso non si sono dannate per diventarlo. Rispettano ma non apprezzano il bisogno di un rampollo fatto assolutamente dei cromosomi propri e di quelli del consorte, che obbliga a un percorso accidentato fra medici, cliniche, lettini, analisi, ormoni, vetrini, provette – come se maternità e paternità fossero una facenda di ovuli e spermatozoi, invece che del sorriso della madre e delle braccia paterne. Questo «bisogno» vien giù diritto dal peggio del patriarcato.
È invece un fatto, e pesante, che la maternita delle giovanissime è perlopiù un incidente, sopravvenuto in quella sorta di coazine alla sessualità, oggi obbligatoria come era un tempo l’interdizione. È un fatto che le donne di tutti i paesi e religioni, se appena possono mettere il dito sul grilletto genetico, riducono drasticamente il numero dei figli: negli scricchiolii del patriarcato questo il più vistoso. È un fatto che le politiche demografiche per la natalità non portano da nessuna parte. È un fatto che in grandi parti del mondo una figlia femmina è soppressa. È un fatto che un senso della riproduzione va ricostruito fra noi e con gli uomini scombussolati dalla caduta del classico ruolo paterno. È un fatto che il maschilismo si difende nel risorgere delle religioni. È un fatto che grande è il disordine delle soggettività sessuate sotto il cielo. Neanche il desiderio è così semplice. Vogliamo discuterne?
il manifesto 30/5/2010
In risposta a rossana rossanda
L’altra metà del lavoro
Lia Cigarini, Giordana Masotto, Lorenza Zanuso
La flessibilità imposta dall’economia neoliberista non rappresenta un’opportunità per le donne. Ma il tempo pieno, sempre uguale per tutta la vita, non può più essere considerato un modello a cui adeguare lotte e obiettivi. In questo quadro, chiudersi nell’alternativa fra «più stato» o «più mercato» impedisce di sperimentare nuovi modi di accogliere il conflitto, che di per sé costituisce un passaggio essenziale per cambiare l’organizzazione del lavoro.
-Immagina che il lavoro (testo scaricabile in www.libreriadelledonne.it/Stanze/Lavoro/ stanzalavoro.htm), merita alcune precisazioni e ci spinge a riflessioni più generali che ci piacerebbe aprissero sul manifesto un confronto, secondo noi necessario e urgente. Rossanda ci invita: «vogliamo discuterne?». È un invito che abbiamo molto apprezzato e che facciamo nostro. Lei dice che noi vediamo nella flessibilità una opportunità di conciliazione maternità/lavoro. Questa obiezione gioca sull’ambiguità del termine flessibilità (delle persone per il lavoro o del lavoro per le persone?). Certamente noi non abbiamo mai sostenuto che la flessibilità imposta dal mercato del lavoro neoliberista sia un’opportunità per le donne.
Noi affermiamo – e con noi lo affermano da tempo centinaia di economiste e studiose in tutto il mondo – che il modello di lavoro full-time full-life ha una storia specifica, fondata su una specifica divisione del lavoro tra i sessi: gli uomini al lavoro retribuito e le donne a casa. Diciamo che, con la partecipazione femminile di massa al lavoro per il mercato (unitamente al controllo della procreazione e alla più generale consapevolezza nata con il movimento delle donne), questo modello non è più sostenibile; e che va rimesso in discussione per tutti, uomini e donne. In altre parole: il tempo pieno, sempre uguale, per tutta la vita, non può più essere considerato il modello cui uniformare lotte e obiettivi. Non solo non è perseguibile, ma neppure desiderabile. Così come non è né perseguibile né desiderabile uno sviluppo basato sull’aumento infinito dei consumi.
Processi di adattamento sociale
Siamo ben consapevoli che il mercato del lavoro non è più quello degli anni Sessanta-Settanta. Vediamo e ascoltiamo le condizioni di precarietà e ricatto cui sono costretti in particolare i giovani nelle attuali condizioni del mercato del lavoro: donne e uomini, perché questo cambiamento non riguarda specificamente le donne. Eppure, riteniamo imprescindibile mantenere fermo quel punto di analisi, cioè la radicale trasformazione dell’idea stessa di lavoro determinata dalla presenza in massa delle donne anche nel lavoro retribuito. Perché vediamo che quel punto di vista non solo fa chiarezza sulle trappole paritarie (come perfettamente spiega Ida Dominijanni a proposito dell’età pensionabile, sul manifesto del 5 giugno), ma apre a una diversa consapevolezza, diversa anche dalla solita analisi sul lavoro postfordista. E crediamo che, se non ci sono impuntature ideologiche e steccati identitari, questa consapevolezza dia forza alla soggettività politica delle donne, e possa mettere in comunicazione anche donne e uomini che usano chiavi di lettura diverse. A questo primo e fondamentale punto di analisi, noi aggiungiamo un corollario: la completa socializzazione del lavoro di riproduzione attraverso merci o servizi privati e pubblici, che viene proposta come «soluzione» sia nelle impostazioni marxiste classiche sia dai teorici del pieno impiego del capitale umano uomo-donna, non è né credibile né desiderabile. E quindi va rimesso sul piatto della politica e dell’economia l’insieme del lavoro necessario per vivere, il suo senso per i singoli e la collettività, e la sua distribuzione per tutti. E ipotizziamo che in questa discussione le donne possano portare conoscenza e esperienza, un sapere storico che non va buttato via.
Rossanda dice anche che non teniamo in sufficiente considerazione la cancellazione dello stato sociale, i bassi salari delle migranti, e i differenziali salariali uomo-donna. Concordiamo che siano temi di fondamentale importanza, ma riteniamo imprescindibile discuterne a partire da una seria considerazione dell’insieme del lavoro necessario per vivere. Senza poter entrare qui nel dettaglio, osserviamo solo che nessuna di queste tre cose è direttamente correlata alla maggiore o minore flessibilità dei tempi di lavoro. L’assetto attuale del mercato del lavoro italiano, con i suoi squilibri generazionali e territoriali, etnici e sessuali, si è realizzato all’ombra di un silenzioso intreccio di interdipendenze tra lavoro di produzione e riproduzione, il cosiddetto familismo all’italiana.
C’è chi vede questi processi solo o prevalentemente come colpevole sfruttamento di alcune donne su altre donne, o anche come pura e semplice mercificazione del lavoro di cura. A noi questo pare miope. Si tratta piuttosto di un gigantesco processo di adattamento sociale che non è possibile capire né smontare se non si riparte proprio dal guardare agli andamenti e alla qualità del lavoro retribuito di donne e uomini, migranti comprese, dal punto di vista del lavoro di riproduzione dell’esistenza, e non viceversa. Quanto ai differenziali salariali uomo-donna, oltre a essere di controversa misurazione, sono in Italia i più bassi d’Europa (4,9%, vedi Mark Smith su www.ingenere.it) e più in generale derivano sostanzialmente dal fatto che in tutto il mondo occidentale uomini e donne che lavorano hanno caratteristiche personali diverse, e fanno lavori e occupano posizioni differenti nel mercato del lavoro: un fenomeno per il quale si richiede una spiegazione ben più complessa che non la «denuncia» della flessibilità.
Infine, nell’alternativa secca o «più stato» o «più mercato», richiamata da Rossanda, di certo non è venuta da parte femminista la richiesta di più mercato. Restare chiuse in quell’alternativa, che è troppo rigida e troppo semplice, impedisce, ad esempio, di ragionare su «un welfare a misura di relazioni» come abbiamo fatto con Laura Pennacchi, oppure di cogliere dinamiche inedite tra locale e globale e di sperimentare forse anche nuovi modi di agire il conflitto.
Quando poi parliamo di maternità è chiaro che non intendiamo solo maternità biologica, né tanto meno destino identitario.
Condividiamo le osservazioni di Rossanda. Figurarsi se non sappiamo che esiste anche un lato oscuro della maternità. Perfino nel nostro gruppo ci confrontiamo continuamente con tutto ciò: delle otto autrici del Sottosopra, quattro sono convinte madri biologiche e quattro convinte non-madri biologiche. Dice Rossanda: «È un fatto che un senso della riproduzione va ricostruito fra noi e con gli uomini scombussolati dalla caduta del classico ruolo paterno». Ma è proprio per ricostruire quel senso che dobbiamo rimettere al centro dell’analisi politica tutto il lavoro necessario per vivere.
Su questo tema, la nostra esperienza di confronto con molte donne ci fa dire che l’affermazione del «doppio sì» – cioè di due desideri per molte irrinunciabili, lavorare e stare con i figli – lungi dall’essere percepita come elitaria, o dall’inchiodare ognuna al proprio vissuto, fa tirare sospiri di sollievo, apre spazi importanti di libertà personale e abbatte steccati. La fortuna che l’espressione «doppio sì» – non è un obiettivo politico in senso classico – ha avuto, superiore alle nostre aspettative e negli ambiti più diversi, ci dice che quelle parole danno forza simbolica a ogni singola donna, madre o no, perché valorizzano la sua differenza e le dicono che è possibile ripartire anche da lì. Per fare cosa? Per narrarsi pubblicamente, per contrattare, per agire politicamente.
Agire il conflitto
In conclusione: l’analisi di Rossanda, come altre che leggiamo, ci appare ancorata a una specie di realismo depresso. Al contrario noi saremmo caratterizzate dall’ottimismo elitario. Siamo invitate a scendere sulla terra e a confrontarci con i duri fatti della realtà. A non prendere il desiderio per sogno, a misurarci con la necessità del cambiamento e del conflitto. Eppure nel nostro testo affermiamo con forza la necessità di agire la contrattazione a tutti i livelli, tra sé e sé, con l’altra/o, in casa e nel lavoro. Di riscoprire dal nostro punto di vista la conflittualità. Togliendo a questa parola l’interdetto sociale che ormai si è imposto, che la associa a negatività, debolezza e fallimento, schivando contemporaneamente la modalità bellicosa che ha come misura il controllo del potere. Agire il conflitto, al contrario, vuol dire riconoscere sé e l’altro nella loro differenza. Agire il conflitto per evitare la guerra, che invece vuol dire definire l’altro «nemico» per poterlo annientare. Contrattare per dare spazio pubblico alla differenza.
Per tutti questi motivi, ci viene il dubbio che una difficoltà a confrontarsi tra chi ha a cuore donne-lavoro-politica, stia forse anche nel fatto per cui alcune scommettono sulla forza della libera soggettività femminile di cambiare il senso e l’organizzazione del lavoro, mentre altre non possono sottrarsi alla sofferenza femminile, doppiamente segnata dalla globalizzazione e dal patriarcato, un morto vivente che sa ancora colpire.
Luoghi di parlanti
Per essere più chiare: il nostro testo non dice nulla di sostantivo su quello che le donne sono o dovrebbero essere. Né propone un compiuto disegno di riforma del mercato del lavoro e del welfare, del part-time o dei congedi parentali in un’ottica conciliativa. Contro ogni neutro universale (maschile e femminile), afferma piuttosto la singolarità di ognuna, e scommette sulla possibilità di ognuna di parlare di sé, del mondo (e del lavoro), sia tra sé e sé che insieme ad altre/i. È una possibilità eternamente contesa, e difficile da praticare, ma è il sale della vita. È una realtà che già affiora in quel mondo ricco e difficile da catalogare che è la rete. Quando diciamo che ci vogliono, e ci sono, «luoghi di parlanti» parliamo di questa possibilità, non di altro: creare luoghi in cui le donne possano conoscersi e riconoscersi, scambiare valutazioni, dare parole alle difficoltà, mettere sul piatto i propri bisogni, lasciar affiorare i desideri, attirare anche gli uomini al confronto.
Per incominciare a delineare la mappa dei desideri di cui parla Rossanda, perché è vero che «neanche il desiderio è così semplice». Creare realtà di donne e uomini che si parlano, che trovano se stesse/i insieme ad altre e altri. Che per questa via diventano singolarmente soggetti politici. O ci crediamo che le donne hanno questa forza, o non ci crediamo. Vogliamo ripartire da qui?
il manifesto, 10/6/2010