Fermiamo la manovra del governo contro i diritti dei lavoratori!

Il lavoro in liquidazione.    

Piergiovanni Alleva, Giovanni Naccari

Soluzione finale. Il governo e la maggioranza di destra stanno per approvare in Parlamento il disegno di legge (1167-b/Senato) che sul lavoro completa l’opera di destrutturazione del sistema di tutele del lavoro, già portata avanti con fervore da ben noti provvedimenti legislativi (detti comunemente «pacchetti») fino al decreto legislativo 276/2003 (c.d. legge Biagi). Si tratta di una sorta di «soluzione finale» (o «crocefissione», stante la vicinanza della Pasqua) perseguita con molta determinazione e anche con una certa perfidia tecnica che rende poco visibile la reale portata e gravità dell’operazione. Allarmate reazioni, infatti, sono venute soprattutto dagli esperti (Consulta giuridica Cgil, Associazione per i diritti sociali e di cittadinanza, Agi, appello di giuslavoristi). Ma è mancata, finora, la grande mobilitazione della gente comune, come quella che si era attivata dopo l’attacco all’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori. Eppure la posta in gioco è la stessa, e anzi addirittura più ampia di quella che nel marzo 2002 portò milioni di lavoratori a riempire il Circo Massimo.
Tutto il potere al datore

L’ispirazione generale del progetto si fonda, da un lato sulla volontà di privare i lavoratori della facoltà di un rapido ed efficace accesso alla giustizia, e dall’altro dalla volontà di privare i giudici del potere di ripristinare effettivamente i diritti violati dei lavoratori. Questo si evince in primo luogo dall’articolo 32 del progetto che – sotto la specie di voler impedire al magistrato un controllo di merito, ossia sull’opportunità dell’esercizio del potere datoriale – pretenderebbe di lasciare alla decisione semplicemente arbitraria del datore vicende importantissime, quali i trasferimenti o i licenziamenti per ragioni economico-produttive. Dunque, senza alcun contemperamento tra il potere del datore e l’interesse del lavoratore alla stabilità dell’occupazione, come invece vorrebbe l’articolo 41, comma 2 della Costituzione.
Certificazioni false, giudizi arbitrari

Lo sbilanciamento del progetto a favore della parte datoriale risulta altrettanto evidente dalle innovazioni apportate alla certificazione dei contratti di lavoro. Questo istituto, introdotto dalla cosiddetta legge Biagi, ha sempre avuto un fondamento intimidatorio e ricattatorio, perché consiste nell’attribuzione a un rapporto di lavoro di una certa «etichettatura», alla quale il lavoratore acconsente solo per l’assoluta necessità di lavorare. Così normali rapporti subordinati possono essere «certificati» come a progetto, a termine, ecc. Tuttavia, l’esistenza dell’articolo 24 della Costituzione ha garantito finora al lavoratore il diritto di rivolgersi al giudice per ristabilire la vera natura del rapporto. E così ora, per raggiungere l’obiettivo di rendere intoccabile la certificazione di un rapporto sostanzialmente falso, il progetto elimina la stessa possibilità che il lavoratore si rivolga al giudice, prevedendo che nel contratto certificato, stipulato dal lavoratore sotto ricatto, possa essere introdotta una clausola arbitrale per la quale qualsiasi vertenza (sia riguardante la vera natura del rapporto, sia ogni altra vicenda, licenziamento compreso) venga decisa non più dal giudice, ma solo da un «arbitro», cioè da un esperto che, come insegna l’esperienza, è facilmente influenzabile dalle classi economicamente dominanti, e che giudicherà «secondo equità», ossia senza applicare precise norme sanzionatorie.
Sterilizzazione dell’art. 18

Come si può intendere, non sarà necessario attaccare frontalmente l’articolo 18, perché basterà aggirarlo, sostituendo il soggetto che dovrebbe applicarlo. Ad esempio, in caso di licenziamento ingiustificato, l’arbitro più facilmente non deciderà il «reintegro» nel posto di lavoro, ma più «equamente» una modesta «monetizzazione» per l’«arbitraria» perdita dell’occupazione del sempre più solo e indifeso lavoratore.
Come infierire sul precariato

Chi non si è fatto illusioni sugli orientamenti sociali della destra, osserva con sgomento il cinismo con cui il progetto tende a perpetuare lo sfruttamento del precariato. Anche qui l’attacco è per via processuale. Infatti il progetto pone ora ostacoli temporali e psicologici alla possibilità di ottenere la trasformazione in contratti di lavoro subordinato a tempo indeterminato, i rapporti precari (a termine, a progetto,somministrati, ecc.) che risultassero per un verso o per l’altro illegittimi. Infatti, ora bisognerà che il rapporto precario sia impugnato stragiudizialmente al massimo entro 60 giorni dalla sua conclusione e che l’azione giudiziaria sia effettivamente iniziata nei successivi 180 giorni. Si sfrutta cinicamente, da una parte la scarsa o nulla conoscenza giuridica dei semplici lavoratori, magari extracomunitari, e dall’altra la titubanza che il lavoratore precario ha sempre verso una immediata impugnazione per la speranza di un rapporto contrattuale spontaneo.
C’è dell’altro

Il progetto, infatti, sfidando la sentenza della Corte costituzionale che ha riconfermato la conversione a tempo indeterminato del rapporto a termine illegittimo, prevede che al lavoratore non vengano dovute tutte le retribuzioni perdute, ma soltanto un risarcimento minimale, con pesanti ripercussioni retributive e previdenziali per il lavoratore ingiustamente assunto come precario. In definitiva, per il governo di destra, egli deve perdere anche quando vince.

*associazione per i diritti sociali e di cittadinanza

il manifesto, 4/3/10

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