Dilaga una sorta di pandemia etica che minaccia la natura della convivenza civile
Enzo Bianchi
Più volte l’abbiamo ribadito su queste colonne e con forza l’abbiamo affermato in più occasioni: ci stiamo dirigendo a piccoli passi verso la barbarie. Negli ultimi tempi l’andatura è sempre più accelerata e l’emergenza di alcuni fattori deleteri ci porta a riconoscere che ormai ci troviamo in una barbarie diffusa.
Non si tratta solo di assenza o debolezza della cultura, ma di una ferita alla civiltà inferta dall’affermazione di comportamenti indegni dell’uomo che non cercano la qualità della convivenza ma la oltraggiano. Assistiamo non allo scontro di civiltà profetizzato da Huntington, né alla fine della storia ipotizzata da Fukuyama ma, in modo più tragicamente banale, al piombare in un’epoca oscura, in cui è minacciata di sparizione la stessa democrazia. Quest’ultima, infatti, non può sussistere in una società in cui si disprezza la politica, cioè la gestione del bene comune, in cui non si avverte più come necessaria alcuna convergenza sull’orizzonte di senso della polis.
Nel Salmo 14 vi è un’amara constatazione: «tutti sono corrotti, nessuno fa il bene!»: grido tragico perché, se da un lato può essere denuncia di una situazione reale contingente, d’altro lato può attestare la presenza di una pandemia etica che dilaga e che perverte la natura stessa della convivenza civile. La violenza, l’aggressione innanzitutto verbale non è forse un habitat al quale oggi assistiamo attoniti, in un’impotenza a fare qualcosa che ci rende tristi e amareggia i nostri giorni? Basta accendere la televisione – cosa che personalmente mi capita assai di rado e solo fuori casa – per assistere a talk-show in cui si misura da subito il sistematico non ascolto dell’altro mentre il tono di voce gridato copre ogni opinione e passa sovente al disprezzo e all’insulto che negano l’altro nella sua soggettività e dignità. Così i telespettatori si abituano progressivamente ad assumere come propri nel quotidiano quegli atteggiamenti aggressivi. Questi divengono così la modalità consueta dei rapporti in famiglia, sul lavoro, nei luoghi di incontro: tutti si sentono non solo autorizzati, ma incoraggiati alla rissa, all’aggressione, al dileggio delle regole comuni. I ragazzi e i giovani, invece di essere contenuti e corretti nelle intemperanze proprie dell’età, di essere condotti alla consapevolezza di limiti e di freni essenziali e decisivi nei rapporti e nella comunicazione, si sentono stimolati a emulare i modelli di comportamenti incivili offerti dagli adulti: se incrociano un senzatetto lo scherniscono quando non lo malmenano, alla vista di una persona di colore partono insulti e sputi, gli immigrati sono oggetto di minacce e di intimazioni a tornarsene a casa loro…
Anche certa stampa ormai è divenuta palestra di combattimento, in cui non ci si arresta neppure davanti al mistero e alla dignità della persona, con accuse che vogliono solo distruggere il bersaglio preso di mira. Questi sono anni in cui molti italiani si sentono autorizzati dagli esempi provenienti da quanti occupano posizioni di rilievo anche istituzionale a far uso non solo di espressioni violente, volgari, offensive dell’altro, ma di un profondo disprezzo per qualsiasi regolamentazione. L’egolatria dominante reclama che i bisogni soggettivi siano accolti da tutti come diritti, anche se contro gli altri e contraddicenti l’umanizzazione, dimentica che accanto ai diritti ci sono sempre dei doveri, sembra negare ogni responsabilità personale per inquadrare il male compiuto in una fisiologia della vita umana personale e sociale: tutto questo fa sì che la barbarie avanzi e che la stessa democrazia sia erosa.
In questo quadro sconsolante la società risulta afflitta da una progressiva perdita di memoria, e un paese senza memoria non ha passato, non riconosce l’eredità che gli è propria e perde così la capacità di vivere il presente con consapevolezza e il futuro con speranza e progettualità. Per ogni cultura, la memoria dei momenti e delle forze che l’hanno generata è essenziale: è proprio nella memoria degli eventi fondatori che la democrazia si afferma e si manifesta come valore. Ora, un individuo sradicato dal proprio passato, senza vera appartenenza che non sia quella localista o quella dettata da meri interessi economici, non può essere un cittadino di una società autenticamente democratica. Quando l’identità è negata a livello di polis ed è valorizzata solo con atteggiamenti etnicistici, innesca infatti una regressione alla dimensione tribale, alla tirannia di gruppi «consanguinei» e autoreferenziali che minano lo spazio della communitas. Va invece spezzata la contrapposizione tra cittadino e Stato, tra individuo e società e riscoperta la dialettica tra queste due polarità perché l’«io», il «noi» senza «gli altri» depersonalizza e immiserisce: il «noi» assume la forma incontenibile dell’esclusione e, di conseguenza, l’altro assume i tratti della minaccia da scongiurare o da distruggere preventivamente. A questo punto la strada verso il razzismo è spalancata.
Non si dimentichi che le parole quando si caricano di odio diventano armi, che le accuse reciproche senza più limiti né rispetto spingono alla negazione e alla distruzione dell’avversario, che il continuare ossessivamente a indicare nell’avversario il Male genera a poco a poco una violenza che può arrivare ad assumere persino le forme del terrorismo più o meno elaborato ideologicamente.
Saremo capaci di un soprassalto di dignità umana e di etica democratica? Sapremo riscattare il senso alto della politica, oggi pesantemente affetta da una malattia autoimmune di svilimento? Non si tratta tanto di auspicare una tregua verbale posticcia, di aggiustare i toni di un confronto che da tempo ha cessato di essere tale ma, ben più in profondità, di favorire il passaggio dall’individuo al soggetto politico, innescando una logica non solo di diritti ma anche di doveri verso gli altri e con gli altri. Ritrovare la propria qualità di cittadini significa sentirsi attori di una storia collettiva, capaci di immaginare se stessi assieme agli altri, tesi a riscoprire valori comuni e principi etici condivisi attraverso i quali edificare la polis, rifiutando che sia la forza a prevalere. Certo, questo richiede volontà, assunzione della responsabilità comunitaria, senso dello Stato e capacità di elaborare, mantenere e alimentare un quadro sociale e istituzionale che garantisca a tutti la libertà nella giustizia. Ma è l’unico percorso per uscire dalla barbarie e rientrare nella civiltà.
La Stampa, 18/10/2009