INFERNO INDIGENO
di Nando Mannella
Terre contese, schiavismo e pulizia etnica: 300 milioni di persone appartenenti ai popoli indigeni rischiano di sparire per sempre dal pianeta. Ma firmare la convenzione 169 dell’Onu può fermare il genocidio.
La globalizzazione ha trasformato in una sorta di Guantanamo planetaria il mondo indigeno, il 4% degli abitanti del pianeta, 300 milioni di persone, centinaia di tribù ancora ignote come gli «uomini rossi» dell’Amazzonia, migliaia di etnie e idiomi sparsi in quasi tutti i continenti su territori immensi con ingenti ricchezze. L’odierno mattatoio registra comunità e popoli imprigionati, militarizzati, schiavizzati, predati da una maxifinanza onnipotente che compra interi continenti con risorse e annesse braccia, knowhow, reti telematiche, neoconquistadores planetari in cerca di mercati da sfruttare e controllare, chiamate «politiche di sviluppo, libertà, democrazia», termini spesso di copertura per giustificare ogni tipo di dominio e massacro, tant’è che diventano virtù gli sconquassi ecologici e l’annientamento dei «residui primitivi». Razzisticamente li chiamano così, eppure non hanno carceri, manicomi, cibo-spazzatura, inquinamento, senzatetto, stress, bombe, debiti e povertà, se non quelli portati da una «civiltà-binaria», proprietà-profitti, con pretese egemoniche e universalistiche, in cui storicamente le dinamiche dell’etnocidio sono strettamente intrecciate all’ecocidio.
Il 50% degli abitanti di molti villaggi pakistani vive con un rene solo, perché l’altro l’ha venduto al mercato nero dei trapianti. L’organizzazione non governativa (ong) «Save the children» parla di milioni di bambini-schiavi, fatti prostituire, venduti per pagare debiti familiari in Cina, Centroafrica, Birmania, ecc. Sarebbero 15 milioni solo in India, dove l’era coloniale sembra non sia finita per i 300 indigeni Jarawa, il centinaio di Onge, i Sentinelese, cacciatori raccoglitori di origine «Negrito» delle isole Andamane, a rischio estinzione.
A rischio estinzione
L’aggressione alle comunità indigene è intercontinentale: spazza via costumi, idiomi, retaggi mitologici, riti religiosi, saccheggia terre, devasta l’ambiente e condanna all’estinzione. Pressoché sterminato l’elenco delle comunità a rischio tracollo etnico, anche nella vecchia Europa: i Sami della Norvegia, Finlandia, nonché le superstiti etnie del Nordest siberiano e della tundra subartica – Ostiaki, Jukakiri, i mille Nganassani i 15 mila Ciucki, Koaraki e i nomadi Hanty i cui habitat sono stravolti dall’estrazione di gas e petrolio. «È difficile descrivere cosa sia accaduto al mio popolo – dice un indigeno papuaso Amungme -. A me è rimasto solo il nome. Le montagne, i fiumi, le foreste: tutto ora appartiene al governo e alla compagnia americana Freeport McMoRan. Io non ho più nulla». È quello che è successo alle 312 tribù del Papua Nuova Guinea, Indonesia, col «piano- trasmigrazione» del governo appoggiato da società straniere (Rio Tinto, ScottPaper, Freeport) e con l’operazione-annientamento dei Papuasi dell’esercito indonesiano: massacri, aggressioni ai villaggi, omicidi mirati, stupri, violenze, denunciati anche di recente da «Survival International». Non hanno miglior fortuna i 250 mila Pigmei del Gabon, Ruanda, Camerun, Congo, Uganda e i 95 mila Boscimani dell’Angola, Namibia, e soprattutto quelli del Botswana – il più grande esportatore di diamanti del mondo, dove la De Beers e il governo sono soci al 50% di giacimenti nelle terre dei Boscimani. Ai quali, con l’appoggio di Survival, una storica sentenza ne ha ripristinato i diritti di caccia e dimora nella Riserva del Kalahari, dopo anni di reinsediamenti forzati in campi governativi dove dilagavano alcolismo e Aids. Nel girone da incubo del Sudamerica, l’arrivo della «civiltà» dei bulldozer, prospezioni minerarie, petrolifere, deforestazioni selvagge, nonché attività missionarie e sette religiose, stanno mandando all’inferno la vita di molte tribù, tra cui i 5000 Ayoreo che vivono tra Paraguay e Bolivia e 15 gruppi di indiani incontattati del Perù, come i Piro. È di pochi mesi fa il massacro di 40 indios peruviani che si opponevano all’esproprio delle risorse petrolifere nello stato di Amazonas. Nel Mato Grosso, la coltivazione di soia su terre disboscate degli Enawene Nawe e progetti di dighe sul fiume Juruena minacciano la loro sopravvivenza. Tragica anche la vicenda dei Nukak-Maku colombiani, fuggiti dalla foresta natia teatro di scontri tra guerriglieri, paramilitari e trafficanti di coca che si contendono il controllo delle coltivazioni. In più malaria, tubercolosi, vaiolo ne stanno straziando le vite, decimandoli. Nel 1988, anno di contatto con i bianchi, erano 1200 ora sono poche centinaia.
Ecologisti contro nativi?
Il problema riguarda però più in generale la salvaguardia di tutti i 370 e più popoli dell’Amazzonia, circa 900 mila individui, Yanomani, Guaranì-Kaiowà, Makuxi Wapixana, AvàCanoeiro, Korubo, Kayapò e altri, oggetto di forme di razzismo, omologazione culturale forzata, «progetti-sviluppo» devastanti, stanziamenti illegali. Persino l’Unione europea, l’onnipresente Banca Mondiale e potentati vari finanziano miniere, strade, piani agroindustriali, dighe che stravolgono gli habitat indigeni, provocando disastri e suicidi, come tra gli Innu del Canada. In questa dinamica distruttiva, fa la sua parte anche il turismo beotamente consumistico occidentale in cerca di avventure, emozioni usa & getta che li inserisce nel redditizio mercato esotico dello showbusiness degli indigeni in vetrina, puri oggetti di scenari folkloristici. Anche la creazione di aree naturalistiche espelle gli abitanti indigeni. Sicché si salva dall’estinzione il tal babbuino o il fiore vattelapesca ma non l’uomo. E non è un caso che aumentino i rifugiati ambientali costretti a spostarsi per far posto a riserve e parchi – oltre 14 milioni solo in Africa. Ma è paradossale e imbarazzante che talvolta seguaci dell’ecopensiero – Wildlife Conservation Society, Nature Conservancy, Conservation International, e anche il WWF – hanno avuto e hanno in alcuni casi, responsabilità indirette nell’avallare oggettivamente politiche mascherate d’ambientalismo che nei fatti minacciano e violano l’integrità territoriale, tradizioni, e diritti dei Nativi. L’Africa Parks Foundation sembra abbia responsabilità dirette in tal senso.
«Tanti governi hanno capito che per estromettere legalmente gli Indigeni dalle terre ancestrali o limitarne i diritti di caccia e di pesca basta trasformare le terre in riserve protette e parchi nazionali – ci conferma Francesca Casella, responsabile italiana di “Survival international” -. Così si beccano i finanziamenti destinati alla protezione di flora e fauna, oltre alle gratificazioni degli ambientalisti e al plauso internazionale». In più, le legislazioni di molti paesi in Africa, America sanciscono l’incompatibilità della presenza umana all’interno di aree protette. E voilà l’imbroglio è servito! È accaduto ai pigmei Bagyeli del parco Campo Ma’an del Camerun in lotta per i loro diritti di caccia, ai Boscimani del Kalahari, ai Vedda dello Sri Lanka espulsi del parco nazionale di Madura Oya.
Dunque, che fare? Intanto, ratificare la Convenzione 169 dell’Organizzazione Internazionale del Lavoro delle Nazioni Unite. I Paesi che la sottoscrivono s’impegnano a proteggere i popoli tribali da discriminazioni, violenze, furto di terre, risorse, con l’obbligo di consultarli in caso di leggi e progetti che interferiscono con i loro modi di vita. In Europa la 169 è stata ratificata solo da Danimarca, Norvegia, Olanda e Spagna. A quando l’Italia? Va riconosciuto agli Indigeni un posto nel mondo, con le loro diversità da salvaguardare, supportando le ong contro le mattanze di un sistema che ha generato e riproduce quell’olocausto, e che mantiene i propri standard di vita sulla pelle e sulle risorse di popoli senza missili né potere. La loro estinzione non è affatto inevitabile. Non si tratta di «conservarli» come specie rare in un impossibile Eden. Anni fa un Sioux dell’AIM, quando gli chiedemmo cosa potevano fare noi europei per aiutarli, disse al nostro giornale: «Non chiedo niente, anche se ci manca tutto. Se volete davvero aiutarci, educate, educate la vostra gente a rispettarci».
il manifesto, 6/9/2009