Femminismi. La battaglia aperta delle donne iraniane. …di Stella Morgana

Riportiamo qui un testo utile apparso su il manifesto che affronta il tema delle forme con le quali si manifestano le lotte delle donne in Iran.   Appare così la forte esigenza di costruzione di un percorso autonomo delle donne in Iran che non può essere letto solo con gli occhi della cultura occidentale e ancor meno strumentalizzato.   Lì è in corso uno scontro sui diritti interno ed esterno alla società islamica che riguarda le donne iraniane e che può aprire nuovi spazi di democrazia per tutte e tutti.

La battaglia aperta delle iraniane.

Femminismi. Un percorso storico-critico e di letture sulla dibattuta questione del velo, al tempo della mobilitazione sulla rete e Telegram

di Stella Morgana

Chi può parlare delle donne in Iran? Chi può ragionare sulle recenti proteste femminili nella Repubblica islamica contro l’obbligo del velo, senza sfociare in retoriche dannose al dibattito e soprattutto senza arrogarsi il diritto di ingabbiare la volontà delle iraniane in categorie cristallizzate e lacunose? Quando si parla di genere – mette in guardia Judith Butler in La disfatta del genere – sembra paradossalmente necessario «sottomettersi a etichette, nomi, aggressioni, invasioni, essere giudicati secondo misure di normalità», quasi per capire quale sia «il modo migliore di presentarsi per risultare candidati plausibili».
E dunque il femminismo in sé rischia di produrre a sua volta, attraverso le espressioni di genere, nuove forme di gerarchia e quindi di esclusione. Come uscire, a questo punto, dal vicolo cieco della contrapposizione riduttiva velo sì/no senza finire nella trappola che prevede solo due vie possibili per le donne iraniane e le loro istanze: l’essere sostenitrici di un femminismo non autentico, non autoctono e «occidentalizzato» o dare sostegno tout court ai dettami della Repubblica islamica? In che modo dare spazio al dibattito interno del Paese e alle sue sfumature? Ad esempio, «le donne e attiviste laiche/secolari iraniane possono parlare?», si sono domandate le ricercatrici Leila Mouri e Soraya Batmanghelichi in un saggio uscito all’interno del volume Gender and Sexuality in Muslim Cultures (Ashgate Press) che meriterebbe la traduzione in italiano.
Negli ultimi mesi in Iran diverse donne si sono tolte il velo in segno di protesta, lo hanno appeso a un bastoncino, si sono fatte fotografare in pubblico, hanno diffuso le immagini in rete. La lotta per i diritti femminili e contro il velo obbligatorio, considerato un pilastro dell’Iran post-rivoluzionario, non è una novità recente. Non rappresenta neanche una battaglia contro la religione o contro l’esistenza dell’hejab in sé. Si tratta piuttosto di una protesta per la libertà di scelta e per l’affermazione del potere d’azione delle donne. Al centro della questione, oggi più che mai, è lo smantellamento della doppia dimensione tra vita pubblica e vita privata, rigorosamente separata quanto praticamente istituzionalizzata dalla Repubblica islamica all’interno di quelle che la studiosa Afsaneh Najmabadi nel suo Women with Mustaches and Men Without Beards definisce «le ansie sessuali della modernità iraniana».
Cruciale nelle nuove espressioni di lotta interna è stato ed è il ruolo di ragazze molto giovani, principalmente nate negli anni Novanta e che quindi non hanno vissuto né la rivoluzione del 1979, né gli anni della guerra con l’Iraq (1980-1988) e neanche – attivamente – le rivolte dell’Onda verde del 2009, perché troppo giovani allora. Sebbene sia innegabile la diffidenza di molte donne rispetto alle modalità di azione in pubblico e debole la partecipazione a gruppi di attivismo formale, il tentativo è molto interessante perché rivela delle trasformazioni in atto all’interno del Paese e nelle interazioni con l’esterno. Accanto a una spinta locale, rappresentata dal genuino desiderio di emancipazione delle nuove generazioni (trasversale in termini di classe, anche se diverso nelle modalità), la protesta contro l’obbligatorietà del velo è stata accolta e sostenuta da diversi gruppi di iraniane della diaspora. Da un lato, le femministe che hanno lasciato il Paese soprattutto dopo la repressione del movimento verde del 2009, dall’altro chi dall’esterno ha strumentalizzato lo slancio delle iraniane per imporre un modello di femminismo universale che prevede un’unica forma di liberazione dal patriarcato di matrice religiosa.
In questa ultima ondata di mobilitazione il cyber spazio e lo scambio online anche con l’esterno è stato fondamentale e – soprattutto con il primo gruppo – è stato positivamente accolto dalle sostenitrici delle proteste in patria, nonostante resti una disconnessione generazionale evidente. Se è vero che il cosiddetto cyber-feminism è iniziato nei primi anni Zero con i siti web Zanan-e Iran o Meydan-e Zanan (le donne dell’Iran e la piazza delle donne), oggi i progetti femminili sono continuati in altri luoghi, le reti si sono espanse e altri nuovi network sono stati stabiliti. Le conversazioni sulle piattaforme online prima – e oggi soprattutto su Telegram – si sono evolute, nel limite del controllo capillare del web in Iran e dell’uso di filtri vpn per aggirare la censura. Nodo centrale degli scambi recenti tra le femministe iraniane dentro e fuori il paese sono stati i temi da affrontare e sui quali concentrarsi, visto che alcune riflessioni riguardo la sessualità o l’obbligo del velo hanno causato il blocco di alcuni siti. Il dilemma è diventato: quali sono le vere priorità per le iraniane oggi? Meglio restare fedeli a i temi che incidono seriamente sulla vita quotidiana di tutte le donne come le questioni legate al diritto di famiglia o andare al di là? La questione è sempre aperta.
In realtà, il terreno di battaglia femminile sarebbe meglio spiegato se letto all’interno di processi di egemonia politica e quindi all’interno di una prospettiva inclusiva che tiene conto tanto dei diversi interessi femminili e delle differenze di classe, religione ed etnia – fondamentali nell’analisi dell’Iran contemporaneo – tanto dei discorsi politici in competizione. Al di là della fascinazione che alcuni media occidentali conservano per la contrapposizione tra anonime figure in chador nero e ragazze ipertruccate con vestiti striminziti e ciuffi al vento, le forme di resilienza femminile e di continuo negoziato per equi diritti sulla carta da parte delle iraniane hanno una lunga storia, e sono passate – anche, ma non solo – dalla liberalizzazione dei costumi.
La resistenza individuale e collettiva delle iraniane si è mossa nel tempo, soprattutto dagli anni Novanta in poi, contro la depoliticizzazione delle donne. Il tentativo è stato quello di scardinare la visione di genere attraverso una lente politica e istituzionale, al di là della dicotomia religioso-secolare. Come scrisse Shahla Sherkat, fondatrice nel 1992 della rivista femminile Zanan (chiusa e riaperta a più riprese), sostanziale era ospitare «discussioni aperte su ciò che è femminismo e sulle diverse forme di femminismo, e lasciare che le donne decidano da sole se possono essere d’accordo con il femminismo liberale, radicale, sociale o di qualsiasi altra forma». In quegli anni dall’alto veniva offerta una narrazione a senso unico del femminismo che lo screditava in quanto prodotto dell’imperialismo dei «nemici», dei poteri stranieri e quindi identificato come progetto di destabilizzazione politica della Repubblica islamica. Il movimento riformista a partire dal 1997, con il presidente Mohammad Khatami, ha contribuito ad allargare lo spazio di partecipazione politica delle donne.
In quegli anni, mentre fiorivano i gruppi femministi di stampo secolare, ma anche le posizioni di revisionismo islamico rispetto al ruolo delle donne, si rafforzavano al contempo le frange conservatrici che avrebbero poi sostenuto le politiche moralizzatrici del futuro presidente Mahmoud Ahmadinejad. Le proteste del 2009 contro la rielezione di Ahmadinejad a un secondo mandato da presidente hanno aperto maggiore spazio per le rivendicazioni femministe, anche se successivamente soffocate. Oggi, mentre il dibattito contro l’obbligatorietà del velo ha raggiunto anche i giornali, le iraniane continuano a combattere su diversi fronti: da un lato, contro chi si ostina a credere, come i sostenitori del presidente statunitense Donald Trump ad esempio, che abbiano bisogno di essere «salvate» in quanto musulmane (anche se non tutte di fatto lo sono); dall’altro, nella consapevolezza di una femminilità che sembra già stata appropriata e definita da altri, contro la loro volontà, che sarebbe l’unica cosa da affermare. A modo loro, velo o no.

il manifesto, 7/4/2018

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