Per cosa votiamo – 4. Per un’altra scuola

Oggi la crisi della politica è la crisi della democrazia rappresentativa.
Appare sempre più difficile, se non impossibile, svolgere una funzione istituzionale (anche per mancanza di forze) capace di contrastare i poteri forti globali degli organismi internazionali quali Banca Mondiale, Fondo Monetario Internazionale, Banca Centrale Europea, delle multinazionali e dei grandi gruppi finanziari che insieme determinano le politiche economiche nazionali, svuotando di contenuti qualsiasi pretesa “governabilità” possibile.
L’inconsistenza delle proposte di politica economica di medio lungo termine dei contendenti e la scarsa qualità del personale politico in gara fanno il resto, cioè rendono irrilevante qualsiasi partecipazione alla corsa elettorale!
Ma i movimenti e la comunità della sinistra radicale hanno il dovere di svolgere la critica dell’esistente e mettere in moto processi di “disturbo” ed esperienze alternative al corso delle politiche attuali.
E vorremmo fare nostre le parole di Guido Viale: “Non si deve scrivere l’elenco delle cose che faremmo «se fossimo al governo». Perché al governo non ci andremo. Per ora. Il nostro compito è avvalorare e diffondere la prospettiva di una inversione radicale delle priorità, sostenerla, renderla concreta con gli esempi, individuare e affrontare gli ostacoli che si parano di fronte. Un programma di opposizione deve indicare la strada per arrivare: non al governo, ma a governarci.
Per facilitare questa scelta abbiamo inaugurato un percorso che permetta di raccogliere strumenti critici capaci di diventare rivendicazioni per movimenti e comunità in lotta!

Riportiamo qui la parte di un intervento di Piero Bevilacqua, apparso su il manifesto, che sollecita la cancellazione della “buona scuola!

 

…c’è un ambito fondamentale della vita del nostro Paese, una istituzione strategica per il nostro avvenire, che oggi non appare sufficientemente vicina agli sguardi e agli interessi della sinistra. E’ la scuola. Il luogo dove si formano le nuove generazioni.
Occorre dire con forza quello che è ignorato da gran parte degli italiani: la scuola così come l’abbiamo conosciuta, luogo di formazione culturale, civile, spirituale è quasi andata distrutta. Essa è stata trasformata e diventa sempre di più, una unica, indistinta, scuola professionale.
La cultura, l’insieme di discipline in cui si articola il sapere del nostro tempo è ormai ridotta ad apprendistato, un campo neutro e frantumato di “competenze”, di cui gli studenti devono appropriarsi per accedere al lavoro.
Come è noto l’alternanza scuola lavoro prevede 400 ore annue di prestazioni lavorative da parte dei ragazzi degli istituti tecnici e 200 da parte dei liceali.
Ore sottratte allo studio, alla riflessione, al dialogo con gli insegnati. Questi ultimi sempre meno sono impegnati nell’insegnamento diretto e nella preparazione delle loro lezioni e sempre più assorbiti da compiti di valutazioni del lavoro, di rendicontazione, misurazione dei risultati, elaborazione di progetti per raccogliere risorse per i loro istituti, ecc.
La scuola azienda – un progetto avviato in Europa alla fine degli anni ’90 – diventa un pilastro di una più ampia riforma del mercato del lavoro, in cui le istituzioni pubbliche della formazione vengono piegate ai presunti bisogni produttivi delle aziende.
Una esagerazione? Invitiamo a leggere (Gazzetta, 25/1/2018) il decreto congiunto del ministero del Lavoro e delle politiche sociali e del Miur che istituisce il Quadro nazionale delle qualificazioni rilasciate nell’ambito del Sistema nazionale di certificazione delle competenze.
E’ evidente che siamo arrivati alla cancellazione di un paradigma educativo che l’Europa aveva elaborato nel corso di alcuni secoli, vale a dire il profilo culturale della modernità, il fondamento della nostra civiltà.
E l’aspetto davvero grottesco di questa drammatica involuzione del processo formativo, è che avviene in una fase storica in cui la vorticosa innovazione dei processi produttivi rende obsoleto in breve tempo qualunque “competenza”.
La scuola che vuole formare i giovani non come cittadini e spiriti liberi, ma come lavoratori, equivale a rincorrere a piedi un treno in corsa, ma correndo in direzione contraria. Abbiamo bisogno di generazioni culturalmente ricche e dotate di capacità creativa, per fare della tecnologia che avanza strumenti di liberazione umana e di un superiore assetto di civiltà.
E invece si vogliono fabbricare soldatini di un esercito del lavoro per una guerra che si combatte con altre armi.
Per queste ragioni l’impegno a cancellare alla radice l’assetto aziendale della formazione – di cui la Buona scuola è l’ultimo esito – non è solo un tema efficace di campagna elettorale, ma un obiettivo strategico irrinunciabile della sinistra.

il manifesto, 16/2/2018

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