Di cosa discute “la sinistra”… di Marco Sansoè

2014-3Forse sarà per la parabola discendente del PD, alle prese con discussioni di metodo e assai poco di merito o forse saranno le imminenti elezioni (al massimo un anno!) ma a sinistra c’è una vivace ripresa della discussione: nel PD, intorno a Pisapia, nel congresso fondativo di Sinistra italiana

Si moltiplicano anche gli inviti a costituire una sinistra unita con il PD o a sinistra del PD… Importanti intellettuali e “fondatori” della sinistra alternativa e di classe (Asor Rosa, Castellina, Parlato, Pisapia e altri…) ci invitano a rompere gli indugi e a dar vita a una formazione di sinistra capace di “fare la sinistra”: il richiamo sembra sempre più un invito alla resistenza alle derive cosiddette “populiste” o alla necessità di occupare uno spazio politico vacante.

Tutte e tutti sembrano sottovalutare che quell’assenza non è il prodotto di una mancanza soggettiva ma il risultato di una sconfitta politica della sinistra e di una vittoria del pensiero neoliberista, in presenza di una crisi generale della politica e della democrazia… In queste nuove condizioni non si può rispondere con un atto volontaristico, perché sarebbe l’ennesimo e carico di un forte connotato autoreferenziale!

La discussione nel PD è poco interessante perché chi la alimenta avanza opzioni di metodo mentre ha, in tempi recenti, votato gli stessi provvedimenti: le riforme costituzionali (per poi pentirsene in sede referendaria), il Jobs Act, la “buona scuola”, le leggi della riforma della pubblica amministrazione e in ultimo l’orrendo decreto “buttafuori” migranti!

Gli appelli di Vendola e Pisapia, pur diversi, non ci dicono nulla sulle politiche economiche e del lavoro possibili o sulle scelte politiche per i migranti, ci invitano ad esserci perché dobbiamo “esserci”!

La crisi della rappresentanza non è una favola moderna, ma la condizione della contemporaneità, alla quale non ci si oppone con l’ostinato desiderio di costruire un partito o una formazione politica organizzata per dire “ci siamo”, ma con la costruzione del conflitto, unica condizione necessaria e capace di dar vita alla politica del tempo attuale!

Noi pensiamo che esserci oggi significhi agire per far rivivere i conflitti: connettersi con le diverse occasioni di conflitto nei luoghi di lavoro, nelle strade delle città, sul territorio martoriato dall’incuria e dagli interessi privati, nelle biblioteche universitarie sottoposte a controlli “polizieschi”, nei centri in cui sono ospitati i migranti, ecc., ovunque i conflitti facciano crescere la partecipazione e la coscienza di sé e dei propri diritti!

Mettersi al servizio di queste esperienze variegate e diffuse, farle crescere, e provare a ricondurle a piattaforme nazionali: questo è ciò che si può fare oggi.

Tutto il resto è tempo perso perché già fallito nel passato; è autoreferenziale perché preserva un ceto politico che sembra assumere la forma delle oligarchie; e cede all’illusione che le istituzioni, nell’epoca del “pensiero unico neoliberista”, abbiano ancora lo spazio e la forza di determinare mutamenti sociali che possono essere determinati solo dai conflitti, in aperto contrasto con le scelte nazionali e europee in materia economica, sociale e dei diritti!

Siamo consapevoli che i “nostri compiti politici” si potranno sviluppare solo in tempi lunghi, agendo fianco a fianco con i soggetti sociali, le persone desideranti, che nel tentativo di soddisfare i propri bisogni assumono su di sé il destino della ricostruzione di una società alla deriva. Senza più mediazioni: pensiamo finita l’era dei “Prìncipi” in grado di mediare tra società e Stato, ma è un cammino tutto da costruire…

PS: qui di seguito un intervento di Marco Revelli apparso su il manifesto  che mi è piaciuto molto.

 

Entropia “misura del disordine di un sistema”  di Marco Revelli

Entropia: “fis. Variabile termodinamica di stato, interpretabile come misura del disordine di un sistema” (Dizionario della lingua italiana Sabbatini Coletti)

Viviamo una fase di accelerata entropia. In Italia. Ma anche in Europa. E nell’intero Occidente, fin dal suo cuore di potenza, gli Stati Uniti di Trump. Probabilmente per l’Italia la cosa è più esplosiva e dispiegata. Giorno per giorno un pezzo di equilibrio si rompe. Non c’è più una sola istituzione che si salvi, né quelle di rappresentanza (un Parlamento delegittimato dal suo stesso Governo) né quelle di garanzia (il Quirinale appannato dalla monarchia di Napolitano, la Corte dai “governativi” Amato e Barbera). E analogamente non c’è più una sola forza politica, o un solo fronte politico, che non siano attraversati da irresistibili spinte centrifughe fino al limite della frammentazione.

Ma anche l’Europa non scherza. Già l’ordalia sociale del luglio 2015 nei confronti della Grecia (un’accolita di gelidi mostri impegnati a massacrare un popolo) aveva certificato la cancellazione di ogni frammento di solidarietà continentale. Poi la Brexit e subito dopo la rivolta contro la politica “aperturista” della Merkel da parte del cosiddetto Gruppo di Visegrád (Ungheria, Repubblica Ceca, Slovacchia e Polonia) nel settembre del 2016. Ora le tentazioni “sovraniste” francesi e olandesi. Le tensioni nei confronti della BCE di Draghi da parte dei paesi “forti”. Tutto parla di un processo centrifugo in corso. Sicuramente dell’assenza di un’Europa politica, ma anche di un progressivo distanziamento tra i membri di quella economica, di cui già si intravvedono i punti di rottura. E davanti a cui la “rivoluzione” di Trump sembra aprire crateri: che sarà l’Europa senza più la sponda atlantica? Senza ombrello politico e militare? Costretta a misurarsi col proprio nulla politico, finora delegato e annegato nell’”Occidente”? Serrerà le file? Mah. Più probabile che si rifugi nelle comode identità nazionali, il vecchio hardware dello Stato Nazione di cui possiede il copyright…

In questo quadro l’uscita (pre-elettorale? detta e negata…) della Merkel sull’Europa a “due velocità” suona più a morto che a festa. Salutata con un eccesso di entusiasmo da Gentiloni e Prodi, come se fosse il segno di un soprassalto di leadership politica, sembra piuttosto una pragmatica accettazione dello stato di disgregazione presente. Non “due velocità” ma tante velocità, ogni piccolo gruppo con la sua. Entropia, appunto. E poi, anche fossero davvero solo due le Europe, chi dice che l’Italia sarebbe nella “Prima”, come sembrano dare per scontato Prodi e compagni? Molto più probabile che finisca nella Seconda, insieme a tutto il club Med. E comunque non è detto che restare con i veloci non sarebbe, per noi, un supplizio peggiore che finire nel girone dei “lenti”, visti i differenziali di produttività che ci separano.

Come che sia, nei prossimi sei mesi ne vedremo di tutti i colori. A cominciare dagli anelli a noi più vicini (anche vicini al cuore) come il governo Tsipras, che verrà quasi certamente rimesso sulla graticola come Schauble minaccia ogni giorno senza che finora il nuovo corso socialdemocratico marcato Schultz sembri darsi pena. E poi noi, con la minaccia d’infrazione e del commissariamento appesa come una spada di Damocle, a governare tempi e modi di questo fine legislatura. Per non dire del Mediterraneo. Della “tecnica” con cui l’Europa “dei diritti” tenta di confinare il “disordine” dei flussi migratori ai margini delle proprie frontiere costruendo muri politici persino più osceni di quelli fisici: entropia morale per limitare l’entropia sociale. L’ha detto solo Emma Bonino (ce lo saremmo aspettati dalla Boldrini, che invece finora sembra muta), ma l’accordo tanto celebrato di Gentiloni con Sarraj e la “sua” Libia – così come il contratto stipulato dalla Merkel con Erdogan e la sua Turchia – non sono, quanto a vergogna, migliori del muro di Trump col Messico. Forse sono persino peggiori, perché implicano la detenzione forzata, spesso la tortura, sicuramente i maltrattamenti, le vessazioni, la morte di migliaia di donne, uomini, bambini, “stokkati” (letteralmente) nei campi di detenzione e nelle carceri di regimi dittatoriali. Stati canaglia usati come stati-cuscinetto contro i dannati della terra.

Entropia, dunque. A livello di guardia. Ora, quando si è all’interno di un processo entropico, la cosa peggiore che si possa fare è ragionare come se il sistema fosse in uno “stato di quiete”. Come se si fosse in una condizione di equilibrio. O, rotto l’equilibrio, i pezzi muovessero lungo traiettorie prevedibili o predeterminate. Non è così. Ogni giorno il quadro cambia. Ogni pezzo sta altrove, rispetto a dove era ieri, ma anche rispetto a dove avremmo pensato ieri che dovesse essere oggi. Ogni mossa apparentemente strategica si rivela, l’indomani, miserabilmente tattica. Ogni grande annuncio un provvisorio ballon d’éssai. Renzi, D’Alema, Bersani, Calenda, ma anche Grillo, Salvini, Meloni, le figurine che si muovono sul video, giocano alla giornata. Come d’altra parte quelle che nel video non si vedono perché troppo piccole… Le loro mosse scadono come il giornale quotidiano al primo successivo lancio d’agenzia. La data delle elezioni, il nuovo sistema elettorale, la durata del governo, il destino del referendum sul jobs act, si riconfigurano ogni giorno come i colori del caleidoscopio a ogni giro del cilindro.

Faremmo un errore clamoroso se fissassimo la nostra discussione sulla configurazione del giorno: che farà d’Alema? Ci sarà la scissione? E in questo caso ignorarla o seguirla con interesse? O magari tifare per la rottura? Appenderci ai dubbi mai sciolti di Bersani? Chiedere le elezioni subito? Sperare che si allontanino? Ne usciremmo, pure noi, pazzi. Oppure tanto confusi da finire subalterni all’ultima configurazione uscita dal cappello.

Penso al nostro amico Asor Rosa e al suo ultimo articolo sul Manifesto, tutto popolato di ipotetiche e di fantasmi, fino all’ evocazione a funerali avvenuti di un “centro-sinistra di governo” – categoria sinistrata quant’altre mai – e alla speranza in un’unità tra anime morte senz’accorgersi che tali sono… Tanto ossessionato dall’orrore grillino da scambiare la vittoria del 4 dicembre – vittoria in primo luogo della Costituzione antifascista, di chi ha creduto nella sua difesa, vittoria del buon gusto e buon senso giuridico, vittoria persino della stessa lingua italiana sulla sgangherata grammatica del potere -, con una sconfitta!!! (Ragionare oltre la sconfitta è il titolo). E da esser pronto a morire per un ritorno di tutti all’ovile, liquidata la guida pastorale di Renzi. Eppure Asor era uno tosto, quando vestiva i panni del giovane leone dell’operaismo (erano gli anni ’60…) e scriveva che “nulla è più odioso dei sacrifici inutili” prendendo a ceffoni, per questo, i Calvino e i Fortini rei di andare “all’assalto impugnando gli eterni valori” anziché identificarsi con la trontiana “rude razza pagana”. Per dire dei brutti scherzi che gioca, anche nel mondo nobile delle idee, l’entropia contemporanea. La quale non disorganizza solo le categorie politiche, ma anche i nessi della successione storica, che sarebbe invece utile considerare, soprattutto ragionando del rapporto tra il Pd e il suo dominus Matteo Renzi.

Renzi è pazzo. In questo ha perfettamente ragione D’Alema. E’ pazzo come lo era Riccardo III, quello convinto, al pari di lui, che “convien esser veloci quando siamo accerchiati da traditori”. E che di fronte al “Terzo Messo” che gli annunciava l’arrivo dell’esercito del “grande Buckingham” – quello che l’avrebbe strippato – dava in escandescenze percuotendolo al grido “Via, gufi! Nient’altro che annunci di morte?”. E’ pazzo quando delira del 40% alla portata del suo Pd “ridotto ai minimi termini” come lo definì Ezio Mauro nell’ultima lunga intervista beccandosi una sferzata. Vuole il voto ad aprile – politiche o primarie, per lui pari sono – solo perché sa che ogni mese che passa perde pezzi e appeal. Celebra la sentenza della Corte sull’Italicum come una propria vittoria, dimenticando nella fretta e nello smodato amore di sé che era la “sua” legge elettorale, celebrata come la più invidiata d’Europa e imposta con voto di fiducia per il “suo” governo. Alla fine dovrà anche lui implorare “un cavallo, il mio regno per un cavallo”.  Ma non dobbiamo dimenticarci che l’ascesa di Matteo Renzi non segnò l’inizio della caduta del PD. Non fu lo scivolone su un percorso sano. Fu l’estremo tentativo di tamponare una crisi che appariva terminale per quel Partito. Il successo che ebbe tre anni fa fu dovuto alla sindrome entropica – ancora l’entropia! – che travolgeva il partito di Bersani, erede di quello di Veltroni, e prima di D’Alema, arrivato allora al capolinea (vi ricordate l’elezione del Napolitano II?).

Renzi assorbì dentro di sé la crisi del PD, e come una matrioska tutte le crisi “di sistema”: quella del Parlamento delegittimato, del sistema politico destrutturato, del sistema economico agonizzante. Li avvolse in una bolla di folle ottimismo verbale e di ossessiva pratica del potere. Ora che cade, tutte le linee di crisi che aveva ricondotte a sé si dispiegano, come e peggio di allora. Si torna alla casella di partenza. Sognare un Pd rigenerato dalla sconfitta di Renzi e da una sua qualche uscita di scena è follia almeno pari alla sua. Il dentifricio non rientra nel tubetto spremuto. Se lo si considerasse, si risparmierebbero tante illusioni sul possibile sviluppo della nostra crisi. Si capirebbe che le convulsioni saranno lunghe, e che la bella sinistra non è alle porte. Né ricuperando gran parte del Pd, né riaggregando i frammenti che ha lasciato fuori dalle sue porte.

Certo. Quando si è nel pieno di un processo entropico, non si può far finta di esserne fuori. Ma c’è modo e modo di vivere l’entropia. E quello meno dannoso è la presa di distanza. Non dalle questioni, ma dai singoli pezzi. Lo sguardo lungo anziché quello corto o cortissimo. L’allontanamento del “punto di stazione” (secondo la terminologia della tecnica prospettica) cioè della posizione da cui si guarda, dai pezzi più vicini. Intendo l’allargamento dell’orizzonte. Il quadro d’insieme: quello europeo, in furioso movimento. Quello Atlantico, che dopo la Brexit ha assunto una nuova configurazione… La variabile americana con Trump. Rassegnandoci al fatto che anche qui, in questo campo più ampio, l’imprevisto (e l’imprevedibile) hanno la loro parte. Ma appunto per questo, per non farci travolgere dal vortice (le miserie di Virginia, le bizze di Matteo…), teniamo ferme le gerarchie tra gli eventi, concentrandoci almeno noi, con una seria riflessione, su quelli che contano e non sui cascami contingenti.

il manifesto, 14/2/2017

 

 

 

 

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