25 anni dopo… Contro la guerra del Golfo. Il discorso di Paolo Volponi in Senato nel 1991.

paceNel 25° anniversario della guerra in Iraq pubblichiamo l’intervento pronunciato in Senato il 20 febbraio 1991, di un grande intellettuale e scrittore, Paolo Volponi, senatore di Rifondazione Comunista.   Una presa di posizione forte e implacabile nel chiedere al nostro paese di non parteciparvi e di lasciare alla ragione e alla diplomazia il compito di “risolvere” i problemi. 

Un monito per chiunque voglia cadere nelle tentazioni della contemporaneità armata, aggressiva e arrogante. “Profeticamente” contro una politica internazionale tesa ad offuscare le ragioni dei conflitti e a negare le responsabilità, secolari, dell’Occidente nella determinazione delle cause degli scontri attuali.  Una pratica politica che manifesta l’incapacità dell’Occidente di assumere un atteggiamento costruttivo per sciogliere davvero i nodi dei conflitti in corso.

 

Signor Presidente, debbo prima di tutto dar voce ad una serie di appelli che mi sono giunti da molti uomini di cultura del paese, i quali si rivolgono al Senato con fiducia e anche con alto senso di responsabilità, consapevoli della gravità del momento che il paese sta attraversando. Si tratta di intellettuali, tra cui ricordo i nomi di Cases, Fortini, Eco e Ginevra Bompiani, che mi hanno mandato telegrammi e chiamate; l’elenco prosegue con i nomi di Leonetti, Romano Luperini, Ranchetti, Raboni, Roversi, Enzo Collotti, Valeria Magrelli e di tanti altri che, con unica formula, così si esprimono: «Chiediamo al Senato urgente ed aperta pronuncia di consenso alle trattative di pace, fermare la strage, revocare l’impegno armato italiano».

È stato per me un dovere esprimere queste richieste, ma io partecipo chiaramente con emozione all’appello di questi cittadini, intellettuali seri del nostro paese; non sono quelli che una volta si chiamavano «utili idioti» o «compagni di viaggio», non sono vicini a noi politicamente, esprimono con consapevolezza e con serietà la loro preoccupazione circa la conduzione della guerra nel Golfo, il coinvolgimento sempre più avvolgente che trascina anche il nostro paese in questa guerra e i drammi che comunque da questa guerra deriveranno, sui quali il Senato dovrebbe meditare già da ora, con un’attenzione, una gravità ed una consapevolezza veramente responsabili.

Questo è stato un secolo sanguinario e noi di questo secolo siamo forse quelli che più di altri hanno ucciso: milioni di morti in guerre ripetute che praticamente non sono mai cessate ma che si sono una all’altra legate o diramate. Milioni di morti in questo secolo e non abbiamo imparato niente; anzi, alla fine del secolo noi riaccendiamo una grande battaglia come a volere che anche il secolo seguente, il millennio successivo siano avvolti dai fuochi della guerra. Questa mi pare veramente una dura regressione, un nonsenso che comprometta la nostra stessa civiltà, la nostra umanità, il senso stesso della vita e della storia.

Abbiamo visto la cultura dominante regredire: siamo tornati ai tempi scuri di cattivi poeti che cantavano la guerra come «igiene del mondo», o dei cattivi pensatori, o «mezzofilosofi» che stavano a dissertare sulla giustezza di una guerra e sulla sua necessità imprescindibile, come se questi non fossero i termini, invece, usati da culture che annientavano la qualità della nostra civiltà e che hanno trascinato il nostro e tanti paesi in conflitti inutili, sanguinari, che hanno compromesso la vita dell’umanità e quella stessa del pianeta. Pensiamo a come vivono il Terzo ed il Quarto mondo: sono essi messi in questa condizione dal fatto che il resto del mondo, quello che si dice civilizzato, ha investito le migliori proprie risorse solo nella costruzione di bombe, di armamenti; da cinquant’anni non si costruiscono che bombe: il comunismo, il socialismo, sono finiti anche perchè si sono messi, nei termini del capitalismo, di fatto a produrre anch’essi bombe, perchè una bomba salvava dall’altra bomba ed il mondo è rimasto praticamente dominato, schiacciato dalle bombe.

E le bombe non sono  state fabbricate invano. Oggi questa economia di guerra conclude finalmente le sue operazioni con una guerra: l’occasione è stata trovata.

Io non sono un grande esperto di politica estera, anche se ho fatto parte della Commissione affari esteri, ma pare che Saddam Hussein, prima di invadere il Kuwait, abbia chiesto quasi il permesso o almeno ne abbia dato notizia all’ambasciata degli Stati Uniti del suo paese, avendone, se non una approvazione, una specie di consenso. Ciò diventa poi la grande scintilla su cui si innesta, praticamente, una guerra mondiale. Infatti, lo scontro è in atto. Perchè l’Unione Sovietica vi entra in un certo modo? Perchè il mondo arabo, tutto intero seppure diviso, è preso da sussulti e da smanie di guerra santa? Perchè i Ministri degli esteri del Maghreb si riuniscono oggi in Libia per vedere cosa capiterà?

La grandi potenze, gli stessi Stati Uniti d’America, che fanno una politica da delenda Carthago, non hanno ragionato su questo. Il 2 agosto dello scorso anno Saddam Hussein ha invaso il Kuwait, ha preso degli ostaggi ma poi li ha rilasciati. Ciò significa che, in qualche modo, c’era da parte sua la volontà di trattare. Ma quella volontà fino a che punto è stata sondata? Con le missioni sparute, incerte e piuttosto pallide del Segretario generale dell’ONU, che evidentemente non si sentiva investito di grande forza e di grande sicurezza e capiva di essere superato alle spalle da un’ansia: quella del confronto militare?

Oggi la stessa proposta dell’Unione Sovietica viene scartata prima ancora che si sappia cosa ne pensino gli uomini dell’Iraq, il famoso dittatore e la sua squadra. Prima ancora che essi diano una risposta il presidente Bush brucia la proposta di Gorbaciov e prepara la scontro terrestre. C’è in loro una ansia di guerra, una volontà pertinace di guerra. Ecco cosa voglio replicare alla ragionevolezza sensata del presidente della Commissione affari esteri Achilli, che mi ha preceduto.

In realtà, questo simbolo c’è ed è presente anche nella nostra cultura. Lo si sente dai discorsi che si fanno. È in onda un grande richiamo maccartista che intimidisce le forze dell’opposizione, i pacifisti e lo stesso Pontefice, il quale, rifacendosi ad una citazione del profeta Isaia, parla di «pace giusta». Si badi bene che quella della «pace giusta» non è una citazione dell’onorevole La Malfa, ma del profeta Isaia, che viene però «accomodata» dalla cultura dei mass media come se il Pontefice avesse compiuto un passo indietro e avesse accettato che comunque questa guerra sarebbe in parte giusta per raggiungere una pace giusta. No: nessuna guerra è più giusta; lo abbiamo ripetuto tante volte e lo abbiamo scritto nella nostra Costituzione, signor Presidente.

Mi appello quindi a lei e al Presidente della Repubblica, che sembrava avesse avuto chissà quale balzana idea il giorno in cui era stato eletto, quando si era domandato: ma chi comanda in caso di guerra?

Domanderei ora al Presidente Cossiga: chi comanda, in caso di guerra, signor Presidente? Noi siamo in guerra; i nostri aerei, con i distintivi del nostro paese, combattono contro un altro paese. Questa è guerra.

Cos’altro può essere? Forse un’operazione di polizia? Nemmeno nei momenti più accesi nella lotta contro la mafia o contro il gangsterismo in grande stile si è mai arrivati a tanto. Non è nemmeno possibile un confronto.

Siamo in guerra e anche noi ~ Governo, Parlamento e popolo ~ siamo diventati poco degni della nostra Costituzione. L’abbiamo tradita e abbiamo instaurato una Costituzione materiale che via via ha concretamente soffocato la Costituzione ideale che i Padri hanno scritto, animati da speranze di verità e di giustizia dopo guerre e sofferenze. Abbiamo tradito la nostra Costituzione. Per questo dobbiamo ritirarci da questa guerra. Non ci giustifica nessuna alleanza militare, perché ciò vorrebbe dire che non avremmo più autonomia e indipendenza. Ciò vorrebbe dire che il Ministro della difesa è Ministro della guerra, che è addirittura un finto Ministro della guerra, perchè il vero Ministro della guerra è, in realtà, quello degli Stati Uniti d’America.

Sono considerazioni queste che sono frutto di emozione e al tempo stesso di un ragionamento preciso sui problemi che in questo momento abbiamo di fronte.

La guerra ormai è cominciata e sarà difficile fermarla. Voglio essere cattivo profeta: spero che si riesca a fermarla, ma non ci credo. Queste cose mi pare di averle viste già tante volte, nei loro film, mi sembra di averlo letto nei loro libri: questi vogliono la vittoria, vogliono la sconfitta di Saddam, vogliono la rovina dell’Iraq, vogliono arrivare lì come trionfatori e instaurare un dominio che durerà degli anni, il dominio del capitale, finalmente, su tutte le risorse della terra. Così il cerchio sarà perfetto, così perfetto, che addirittura all’interno delle fila anche di partiti democratici o nuovi democratici, di sinistra o meno, si dice che questa guerra noi la facciamo anche per difendere il nostro livello di vita. Questo è raccapricciante, caro Presidente: noi facciamo questa guerra per difendere il nostro livello di vita. Noi facciamo questa guerra per difendere l’interesse capitalistico al quale è legato il nostro livello di vita. Ma questo vuoI dire che noi approfondiremo sempre di più il solco tra noi e i paesi sottosviluppati; che tutte le altre operazioni che si mettono in atto sono di mistificazione, che non c’è nè politica estera, nè cultura, ma solo una serie di inganni per difendere un privilegio che ormai è ridotto a quello di una cittadella armata.

L’Europa e l’America costituiscono una fortezza armata nei confronti del mondo, lo dominano e ne vogliono le risorse. I problemi dei piccoli paesi intorno non contano; il diritto internazionale è condizionato da questa realtà, è una conseguenza di questa realtà. Chi di noi ha visto qualcuno levarsi perchè il diritto internazionale era stato offeso a Panama o in Nicaragua, contro i palestinesi o in altri posti dove interveniva la forza superiore americana? Mai nessuno. Ora, il diritto internazionale è tutto violato solo e soltanto nei confronti del Kuwait.

Sono d’accordo perchè certamente non sono dalla parte di Saddam né di altri dittatori nazionalistici e con mire di potere, ma è chiaro che in quella zona va ricercata la pace con la discussione, con la trattativa, con l’embargo che non è stato attuato nei confronti di Saddam. Se Saddam è forte è perchè tale lo abbiamo fatto diventare noi vendendogli le armi. Egli non aveva nemmeno un’officina, non ha un’industria, non ha una chimica, non ha niente. Siamo stati noi, paesi dell’Occidente, che lo abbiamo armato, lo abbiamo organizzato e gli abbiamo dato i centri di produzione, le armi, gli arsenali. Adesso noi ci troviamo contro questo tirannello da noi stessi armato perchè prima serviva ad un altro giro della nostra politica estera. Non abbiamo saputo stroncarlo sul piano dell’embargo; mentre bastava che l’embargo fosse applicato seriamente in tutti i campi tecnici, tecnologici, dei trasporti, dei generi alimentari e delle comunicazioni che Saddam in pochi mesi avrebbe dovuto ridursi alla ragione.

Quindi non devo aggiungere altro contro questa guerra che ho già visto. Voglio citare, a questo proposito, anche un film: non sembrano gli uomini del deserto della grande e amata, amatissima America, paese della libertà per noi, gli uomini dell’Afrika Korps di Rommel? Sembrano gli stessi, e la televisione va a caccia anche di queste suggestioni. Non vi ricordate il grande film «Full metal jacket» dove questi giovani di venti anni erano in lotta nel Vietnam poco istruiti ed esaltati fino a spararsi tra loro e a cantare trionfalmente l’inno di Topolino Re? Qui un giornale americano addirittura scrive che è meglio che stiano nel Golfo perché così si sottraggono all’alcool e alla droga. Questa, voi capite, è una ragione insostenibile, è la ragione di una viltà morale e sociale che non può essere in nessun modo sostenuta dalla cultura di un paese; che dà il segno di come in un paese non ci sia più cultura ma smarrimento, soggezione e colonialismo.

Per questo noi diciamo basta alla guerra e lo facciamo con chiare e oneste intenzioni di arrivare alla pace e di lavorare per essa, perché crediamo che il lavoro sia pace, che la giustizia sia pace e il rapporto fra la gente, mettendo le grandi e le piccole nazioni a confronto e trovando un piano nuovo e armonico sostenuto dalle popolazioni e dalle culture dell’Oriente sia pace; altrimenti saremmo brutali ed indegni di essere arrivati alla fine di un secolo sanguinario come questo, lontani dalle Crociate, ma vicinissimi allo stesso spirito.

Spero quindi che il Senato raccolga l’appello che tanti intellettuali, che non fanno parte nè della Rifondazione comunista nè del Partito democratico della sinistra, ma sono degli uomini di cultura preoccupati della civiltà e della qualità politica del paese, esprimono con i loro telegrammi, con i quali chiedono tutti insieme di fermare la strage e di revocare l’impegno armato italiano.

 

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