Letture utili. Islam ed islamismi nel mondo arabo ed islamico che cambia, di Marco Di Donato

blog utiliDal ricco n.33 della rivista Alternative per il socialismo pubblichiamo l’articolo di Marco Di Donato. Una analisi chiara e dettagliata dell’universo islamico nelle sue forme e contraddizioni: un percorso utile per orientare le nostre analisi, osservazioni e azioni.

 

ISLAM ED ISLAMISMI NEL MONDO ARABO ED ISLAMICO CHE CAMBIA

Marocco, Algeria, Tunisia, Libia, Egitto. L’Arabia Saudita, i Paesi del Golfo, lo Yemen. I Territori Palestinesi, la Giordania, la Siria, l’Iraq. Questo, aggiunte molte altre nazione elencate sul sito della Lega Araba come Mauritania e Somalia, è l’incongruo insieme che si usa definire come mondo arabo. Svariati milioni di cittadini, migliaia di secoli di storia, decine di etnie. Repubbliche, monarchie, dittature, per comporre ciò che il prof. Claudio Lo Jacono ha definito un vasto complesso geoculturale. Storie e percorsi diversi che tuttavia alcuni si ostinano a considerare coincidenti. Se poi a “inondo arabo”, aggiungiamo l’ulteriore aggettivazione 1slamìco,’ utilizzando così l’espressione mondo arabo‑islamico, l’insieme si allarga e diversifica ancora di più.

In un articolo a firma di Alfred Stepan e Juan Linz pubblicato nell’Aprile 2013, i due autori hanno esplorato le diverse tipologie statuali di alcune realtà 1slamìche” mostrando la ricca complessità esistente nel rapporto fra i vari poteri dello Stato, nella relazione con la componente militare, nella gestio­ne del governo e non ultimo il rapporto con la popolazione. Non solo. Fatto­re persino più rilevante, Stepan e Linz hanno destrutturato la tesi che vuole mondo islamico e le due declinazioni politiche limitati a Maghreb e Mashreq. Per quale ragione, si chiedono i due autori, i casi indonesiano, senegalese ed indiano vengano raramente considerati, ad esempio, nella valutazione di una presunta incompatibilità fra Islarn e democrazia? Quei sistemi infatti non solo esistono, affermano Stepan e Linz, ma risultano funzionanti e rispondenti alle esigenze delle proprie popolazioni.

L’interrogativo muta forma, ma non sostanza: perché esiste e permane una tendenza, apparentemente irriducibile, nell’accomunare le diverse esperienze politiche del mondo arabo ed islamico? Perché considerare paritetiche le pas­sate esperienze di Gheddafi, Mubarak, Ben ‘Ali, Bashar al‑Asad e voler inter­pretare l’incedere del processo di transizione regionale attraverso prospettive standardizzate e/o applicando medesime logiche interpretative? Perché non cogliere le pur vistose evidenze che differenziano i percorsi politici ispirati all’Islam e raccoglierli invece indistintamente sotto l’etichetta “terrorista”? Se l’Islam e le sue diverse declinazioni in campo politico, sociale ed economico, agiscono, operano e vivono in ambienti plurali, perché non considerarli (an­che) come il derivato di tali contesti?

Il composito mondo islamista: dal Maghreb al Mashreq

Come sostenuto da Burhan Ghalioun, l’islamismo è il riflesso di sistemi poli­tici e sociali esistenti sul terreno”, il cui principio ispiratore è quello dì influen­zare un sistema politico e/o sociale piuttosto che quello di propagandare una nuova religione[1]. Islamismo, ossia quando l’Islam è adottato come ideologia di riferimento nell’agire politico e sociale, si configura come un termine che per ottenere forma compiuta necessita di una aggettivazione aggiuntiva: modera­to, riformista, jihadista, militante, istituzionalizzato e molte altre espressioni che possono di volta in volta, di caso in caso, aiutarci nel meglio inquadrare ciò che intendiamo osservare. L’Islam rimane l’orizzonte ultimo di riferimen­to pur mutando, talvolta radicalmente, la prospettiva in cui tale orizzonte si staglia. Facciamo alcuni esempi.

In un articolo per Current History del 2011, Ahsraf El Sherif presentava il caso del Libyan Islamic Fíghting Group (Lifg) declinandolo in base alle specifiche peculiarità del caso libico: profondi legami tribali, un failed state post‑Ghed­dafi, una burocrazia falcidiata, una consistente influenza occidentale[2] e, ag­giungo io, una rapida militarizzazione del conflitto interno durante il processo di transizione. Questo senza dimenticare le immense risorse naturali che han­no permesso di accumulare riserve petrolifere stimabili in circa 47 miliardi di barili di petrolio e che permetteranno di esportare in futuro oltre 1540 metri cubi di gas naturale[3]. Tutti fattori che hanno determinato condizioni uniche impossibili da rintracciare altrove nelle medesime forme ed intensità e che hanno inevitabilmente influenzato la formazione dei vari soggetti politici (islamisti inclusi) che operano ed agiscono sul territorio libico.

Volgendo lo sguardo oltre confine, al vicino Egitto, il nostro ragionamento si arricchisce di ulteriori spunti di riflessione. La storia dei Fratelli Musulmani, iniziata nel 1928, fa del movimento ideato da Hasan al‑Banna un soggetto che può vantare una lunga esperienza: prima con Nasser, poi con Sadat, sino a po­chi anni fa con Mubarak ed infine con l’ex Feldmaresciallo al‑Sisi. Non siamo dinanzi ad un inesperto interprete della politica e della vita sociale del Paese, quanto piuttosto ad un navigato interprete abituato a districarsi, seppur con alterne fortune, nel mare magnum egiziano. Quasi consequenziale dunque che gli egiziani abbiano, certamente anche per mancanza di alternative, guar­dato primariamente alla Fratellanza durante le prime consultazioni elettorali libere tenutesi dopo le dimissioni di Mubarak. Meno naturale invece per la leadership dei Fratelli Musulmani il passaggio da una condizione di “parteci­pazione” ad una di “dominio” dello Stato svestendo i panni dell’opposizione ed indossando, seppur per breve tempo, quelli di maggioranza.

E’ stata proprio la breve, ma intensa, presidenza Morsi a rendere ancor più manifeste le profonde differenze presenti in seno alla Fratellanza, spaccata fra movimento e partito (Libertà e Giustizia, fondato nel 2011), fra conservatori e riformisti, fra vecchia guardia e giovani affiliati. Non solo dunque la Fratel­lanza egiziana è diversa da qualsiasi altro movimento islamista regionale in considerazione di una lunga storia ed un’altrettanta corposa esperienza, ma altresì al suo interno si agitano diverse correnti di pensiero che contribui­scono talvolta ad arricchirne l’azione ed il pensiero, talaltra ad arenarne ed ispessirne infruttuosamente il dibattito interno.

Ma, a dirla tutta, la Fratellanza non è nemmeno l’unica e sola e massima espressione dell’islamismo egiziano. Insieme ad essa operano ed agiscono diversi partiti e movimenti di ispirazione salafita: alcuni in suo sostegno altri in sua aperta opposizione[4]. E’ quest’ultimo il caso di al‑Nour, partito legato alla storica Da’wa Salafiyya di Alessandria d’Egitto, ad oggi uno dei maggiori sostenitori dei nuovo presidente al-Sisi ed allo stesso tempo uno dei maggio­ri oppositori della Fratellanza. Uno dei suoi massimi referenti ideologici, lo shaykh Yasser Burhami, si è più volte scagliato contro la Fratellanza accusan­dola di servire interessi esterni, di utilizzare tattiche terroristiche, di essere in altre parole uno dei più gravi e pressanti problemi a livello nazionale.

Eppure si potrebbe immaginare che due movimenti o partiti di ispirazione islamista debbano essere naturalmente alleati, agire in coordinamento non fosse altro per un comune sentire religioso ed ideologico: quanto meno trovare un comune campo di intesa. Al contrario al‑Nour ed i Fratelli Musulmaní sono acerrimi rivali. Questo perché, proprio in ragione di un comune orizzon­te di riferimento, fanno in parte riferimento ad uno stesso “pubblico”, (seb­bene la Fratellanza sia decisamente più middle class oriented), condividono alcuni obiettivi divenendo rivali nella corsa verso il loro raggiungimento ed agendo, piuttosto che in reciproca armonia, in aperta sovrapposizione. Non è dunque la fede a rendere antagonisti due movimenti di ispirazione religiosa quanto piuttosto la più terrena politica fondata su calcoli elettorali, valutazio­ni utilitaristiche, imperniata su uno sfrenato pragmatismo che in alcuni casi si risolve in una svendita del proprio patrimonio ideologico e che in altri è invece semplice istinto di adattamento.

Ed anche quando troviamo un rapporto di filiazione diretta tra la Fratellanza egiziana e altre “fratellanze” presenti altrove nel Maghreb o nel Mashreq, dob­biamo prestare particolare attenzione guardandoci bene dal considerarle parte di una “Fratellanza Internazionale” gestita da una direzione centrale. Prendia­mo il caso di Hamas. Nel Mithaq del 1988[5], il movimento di resistenza islamico palestinese poneva in risalto un rapporto diretto ed inequivocabile con la Fra­tellanza egiziana descrivendosi come una ‘delle sue ali” all’interno dei territori palestinesi. In quel documento era persino possibile rintracciare comuni rife­rimenti ideologici (Sayyed Qutb) che non sarebbe scorretto definire del tutto coincidenti. Eppure la storia ci ha mostrato uno sviluppo successivo del tutto differente. Le condizioni storiche che andarono determinandosi nel 1987 in Palestina, l’occupazione israeliana, il rapporto in essere con Hezbollah dall’i­nizio degli anni ’90, la rivalità con Arafat e Fatah, furono tutte circostanze che contribuirono a delineare un percorso unico per Hamas il quale, pur facendo a pieno titolo parte della rete della Fratellanza Musulmana, ne è divenuta au­tonoma e decisamente particolare espressione. A differenza della Fratellanza egiziana il movimento palestinese vanta braccio armato (le Brigate ‘Izz al‑Din al‑Qassam), e la sua leadership, particolarmente frammentata e divisa fra le carceri israeliane, la West Bank, la Striscia di Gaza ed il Qatar[6], deve quotidia­namente confrontarsi con l’occupazione israeliana e la conseguente repressio­ne di uno Stato straniero che boicotta e sabota le sue attività da oltre venti anni. Inevitabilmente il confronto con Israele ha modificato e decisivamente influenzato il contesto palestinese, così come ha condizionato la confinante vita politica libanese e conseguentemente l’identità dei suoi protagonisti politici. Hezbollah nacque ufficialmente nel 1985 proprio per rispondere, militarmente, alla presenza israeliana in Libano creando quella che è allo stato attuale una delle più articolate ed interessanti esperienze legate all’i­slamismo. Ancora una volta occorre tracciare delle differenze. Ad esempio fra Hezbollah ed Hamas che pur condividendo il medesimo nemico e pur avendo nel corso della storia fatto ricorso a tattiche e strategia comuni, quando non concordate, appaiono essere due soggetti ben distinti e separati. Hezbollah sciita e legato a doppio filo all’esperienza, iraniana, Hamas sunnita. Il primo che si presenta come movimento, partito ed organizzazione militare strutturati in un organigramma unico, il secondo spaccato e diviso fra diverse componenti. Il Partito di Dio immerso in un contesto plurale e confessionalmente frammentato, il movimento di resistenza islamico che invece agisce in un contesto tutto sommato omogeneo. Per Hezbollah l’aver avuto origine in Libano, in una realtà che conosce 18 confessioni ufficial­mente riconosciute, dove lo Stato è rinchiuso nei suoi palazzi beirutini e dove lo spazio pubblico è occupato dalle diverse confessioni in assenza di un unico ed aggregante senso comune nazionale, è stato un fattore decisivo per la definizione del proprio atteggiamento ideologico.

E poi, spostandoci in Iraq e Siria, come non menzionare l’Isis, o Isil o in arabo Daish. Tre sigle per affermare essenzialmente lo stesso concetto: una nuova forma di islamismo jihadista, violento, armato, che mira alla restaurazione di un califfato senza che tuttavia il presunto califfo, l’ormai famoso al‑Baghdadi, soddisfi le necessarie qualità delle qualità richieste dal diritto islamico. Pri­ma ed indispensabile essere discendente diretto del Profeta Muhammad, ma non solo come sottolineato dal ricercatore dell’Università di Cagliari Nicola Melis che lo ha definito un Califfato di Canicattì”. Ma su Isis le ombre sono ben più fitte di un semplice cavillo giuridico. Come puntualmente ricostru­ito da Ludovico Carlino sulle pagine di Affari Internazionali[7], questa nuova entità ha dapprima consolidate le proprie posizioni in Siria spostandosi poi verso l’Iraq, a partire dalla provincia di al‑Anbar. Un’avanzata straordinaria per tempi e modalità, per capacità di annessione dei territori, per uomini e mezzi mobilitati. L’Isis sembra essere un soggetto fluido, ancora poco deci­frabile, forse eterodiretto, ma che sta certamente stravolgendo una serie di equilibri storicamente consolidati come ad esempio lo schema geopolitico imposto dagli accordi di Sykes~Picot nel 1916 che ha delineati i confini del Vicino e Medio Oriente. Secondo la retorica proposta da Isis quell’ordine di idee è ormai da considerarsi parte del passato e l’opera di riconquista delle terre degli infedeli da riportare sotto la (presunta) bandiera dell’Islam è ap­pena iniziata: dall’Iraq sino alla Spagna.

In questa lunghissima reconquista all’inverso, l’Isis dovrebbe riappropriarsi di tutte le terre della Dar al-Islam a partire dal Bilad al‑Sham (l’attuale Vi­cino Oriente), passando per l’Hijaz (ossia la vecchia Penisola Arabica ed at­tuale Arabia Saudita), penetrando nel Corno d’Africa sino alla costa atlantica sottomettendo la terra degli Alibash, riconducendo poi FIgitto e la 1,ibia al “vero Islara”, giungendo sino in Maghreb e da lì in Andalusia. Ed è proprio il passaggio nel Maghreb che ci interessa, perché nella sua opera di ricostruzione del califfato (posticcio ed artificioso, oltre che irrealizzabile) Isis dovrebbe necessariamente scontrarsi con il Pjd, acronimo di Parti de la Justice et du Développement, ossia con uno di quegli esempi maggiormente riusciti di islamismo istituzionalizzato[8]. Un partito pienamente inserito nei giochi di potere della monarchia marocchina, che agisce in uno spazio pubblico e politico ben evidente, che ha l’atto a pieno titolo parte dei vari esecutivi succedutisi alla guida del Paese, che in buona sostanza è divenuto uno dei pilastri su cui il re Muhammad VI regge (anche) la legittimità del proprio potere. Eppure le basi ideologiche di partenza sono le medesime dei Fratelli Musuìmani egiziani, sebbene il risultato finale sia, ben diverso. Questo perché, e qui torniamo alla riflessione di Ghalioun, sono le differenti condizioni sul campo a determinare l’agire dei soggetti islamisti.

Anche il percorso tunisino di al‑Nahda, indissolubilmente legato a Rashid Ghannushi, non può essere compreso senza un’analisi della sua storia fatta di lunghi esili nel passato e recenti ritorni dopo la fuga di Ben ‘Ali. L’azione politica di al‑Nahda rivela oggi una “forte malleabilità e un pragmatismo fina­lizzati a assumere le funzioni di forza di governo” nonché una inequivocabile “specificità tunisina”[9] inserendosi a pieno titolo nel processo di transizione tu­nisina: ha partecipato alla scrittura, di una Costituzione attualmente in vigore, ha saputo e voluto scendere a patti con le altre forze politiche, ha inteso mo­strarsi come una forza moderata ed è finora sopravvissuto alla pur burrascosa cronaca locale che ha visti omicidi politici, crisi di governo, manifestazioni di piazza. Questo perché in Tunisia il compromesso con le altre ffirze politiche e sociali è stato evidentemente meglio assimilato che altrove.

Conclusioni

Ripercorrendo questa, pur breve e certamente incompleta carrellata di partiti, movimenti, organizzazioni che all’Islam politico fanno riferimento come ideo­logia, non possiamo non rilevare come l’Islamismo si configuri come uno degli attori principali pur all’interno di differenti e difformi processi di transizione. Lungi dall’essere escluso, l’islamismo è anzi protagonista così come del resto il ruolo della religione come orizzonte di riferimento è tutt’altro che tramontato. Lo confermano EIlen Lust, Gamal Soltan e Jakob Wichmann, quando ricorda­no come negli ultimi confronti elettorali avutisi in vari Paesi arabi la religione sia stata un elemento chiave nel determinare i risultati delle urne[10].

La religione fa a pieno titolo parte del gioco politico e l’islamismo finisce con il giovarsene per affermare la propria proposta politica. Una proposta che tut­tavia non è affatto esclusivamente imperniata sul dogma religioso, il quale peraltro nell’Islam non è mai fisso ed inamovibile, ma piuttosto suscettibile di interpretazione.  L’Islam non è un monolite fisso, ma un insieme malleabile ed adattabile che possiede in sé abbastanza risorse per essere sfruttato, utilizzato o presentato come accomodante o respingente, pacifico o violento, mistico o letteralista. Per questo motivo tutte le sopramenzionate esperienze possono trovare il loro punto di contatto (per quanto forzato, parziale, artefatto o ide­ologicamente scorretto possa essere) e soprattutto la loro legittimazione nella religione. Questo non vuol dire che l’Islam sia una religione intrinsecamente terroristica e violenta. Anzi, vuol piuttosto significare che vi sono musulmani (quindi uomini e quindi fallibili) che interpretano in questo o in quel sen­so la religione utilizzandola nella prospettiva della realtà che li circonda e, come sempre nell’agire umano, in ragione dei propri interessi. Come ricor­dava Massimo Campanini, il giure islamico non è certamente “secolare”, ma è altrettanto vero che si secolarizza nel contatto stesso con la realtà sociale poi­ché, non avendo Dio mai governato in maniera diretta, sono stati gli uomini ad adattare la religione alle proprie necessità ed alle proprie convenienze[11]. E poiché non esiste un’istituzione centrale docente che abbia l’esclusivo diritto di pronunciarsi sul dogma, nell’Islam è ortoprassi a sovrastare l’ortodossia[12]. Lo ricordava, del resto in uno dei suoi hadith il Profeta Muhammad: l’Islam cresce e diminuisce, l’Islam è parola ed azione.

*dottore di ricerca e ricercatore Unimed

[1]  Burhan Ghalioun, Islam e islamismo. La modernità tradita, Roma, Editori Riuniti, 1998, p.58.

[2]  Ahsraf El Sherif, Islamism the After Arab Spring, Current History, December 2011, p. 363.

[3]  Moncef  Djaziri, Natura e sfide della transizione democratica in Libia, in Massimo Cam­panini (a cura di), Le rivolte arabe, l’IsIam. La transizione incompiuta, Il Mulino, Bolo­gna, 2013, pp. 77‑104, p. 87.

[4]  Per un’analisi delle differenti forme di islamisrno in Egitto si prega di consultare, Marco Di Donato, Le molte.facce dell’islamismo egiziano e il suo futuro incerto, Aspen Institute, Mideast Flashpoints, 8 Germaio 2014. Disponibile al link: https://wv~w.asp(~ninstitiite.it/,ìspeììia‑oiiline/article/I(.~‑molte‑facce‑dellislamisiììo‑egiziano‑c‑il‑stto‑fiituro‑incer‑to (ultimo accesso agosto 2014).

[5]  Termine che indicala carta fondativa del movimento di resistenza islamico palestinese.

[6]  La sede di Hamas era storicamente quella di Damasco sotto la protezione del regime di Bashar al‑Asad. A seguito dello scoppio della guerra civile siriana, Hamas è entrato in rotta con Darnasco ed è stato costretto ad abbandonare ufficialmente il Paese riparando in Qatar.

[7]  http://www.affarinternazionali.it/articolo.asp?ID=2698 (ultimo accesso Agosto 2014).

[8]  Per maggiori infiormazioni in merito al Pjd e alla sua evoluzione storica si prega di consultare Tiziana Giuliani, Tra partecipazione e negazione: I Fratelli Musulmani nel Magh­reb, in Massimo Campanini, Karim Mezran (a cura di), I Fratelli Musulmani nel mondo contemporaneo, Utet,Torino, 2010, pp. 141‑167.

[9]  Pietro Longo, Antony Santilli, “Tunisia: modelli di stato islamico a confronto”, in Storia del pensiero politico,il Mulino, (prossima pubblicazione).

[10] Ellen Lust, Gainal Soltan, Jakob Wichmann After the Arab Spring: Islamism, Secularism and Democracy, Current History, Dec 2012, p.363.

[11]  Massimo Campanini, Ideologia e politica nell’Islam, il Mulino, Bologna, 2008, p. 9.

[12]   Massimo Campanini (a cura di), Corano, Rizzoli, Milano, 2002, p. 8

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *